E’ da oltre un anno che non mi appassiono più al dibattito sull’avanzamento o meno dei programmi di digitalizzazione del Paese promossi, a più riprese, dai vari governi succedutisi negli ultimi sette otto anni. L’ultima fase del tentativo di questa delicata materia è stata affidata, eravamo nel 2012, all’Agid (Agenzia per l’Italia Digitale) sotto il governo Monti.
Da allora alla guida dell’Agenzia si sono alternati, con diverse fortune, Agostino Ragosa, Alessandra Poggiani, Antonio Samaritani, attualmente in carica, con il supporto di una serie di membri costituenti il Comitato permanente di indirizzo per l’innovazione, espressione delle componenti politiche di governo e di opposizione, presieduto da Stefano Quintarelli.
Ma non è bastato. A dare una “scossa…” al programma di digitalizzazione del Paese, anche dietro la spinta impressa dai paesi europei più avanzati di noi (praticamente tutti) nell’erogazione di servizi innovativi per il cittadino, veniva nominato un Digital Champion; nell’ordine lo stesso Agostino Ragosa poi Francesco Caio, a seguire Riccardo Luna ed infine Diego Piacentini sbarcato dalla “Silicon Valley”.
Ora, sia in base a quanto rilevo dalle numerose ed attente indagini promosse dalla Commissione Innovazione di Federmanager che ho il piacere di coordinare, sia da quanto emerge dai risultati pubblicati da una serie di istituti di ricerca incaricati di monitorare l’andamento del nostro stato di salute sui temi del digitale, non posso che constatare che più che una “scossa”, la governance messa in campo per gestire una delle più importanti riforme propedeutica allo sviluppo del Paese, ha creato un vero e proprio “corto circuito”.
Una sostanziale paralisi che sta ingessando la vita di cittadini, imprese e pubblica amministrazione. Leggere dal Messaggero del 18/02/2018 che i certificati online sono attivabili solo in 62 comuni su oltre 8.000 e che al contempo sono stati spesi 5.6 miliardi di euro tra il 2012 e il 2015 per “cambiare la pelle e spingere forte sul digitale” lascia l’amaro in bocca.