Paolo Angelucci, 56 anni, è il nuovo presidente di Assinform,
l’associazione di Confindustria che raggruppa le aziende italiane
che si occupano di information technology. E su presente e futuro
dell’informatica italiana ha le idee chiare. “Bisogna far
capire che il mondo dell’IT nostrano è un’industria,
sviluppare la filiera e puntare forte sulle nicchie, perché è lì
che l’Italia può giocare la sua partita”.
Presidente Angelucci, com’è la situazione?
Vorrei intanto chiarire che l’informatica italiana è
un’industria. Una grande industria: deve sicuramente crescere, ma
con i suoi 390mila addetti, le 92mila imprese e 20 miliardi di
mercato non ci sono dubbi sulla portata del comparto. Il problema
è che spesso il mercato non lo capisce ancora, e che quindi sarà
necessario in futuro comunicarlo meglio.
Certo è che rispetto al periodo d’oro, quello della
Olivetti, si è perso molto per strada. Si può recuperare ciò che
abbiamo lasciato indietro?
Io il periodo d’oro di Ivrea l’ho vissuto in prima persona e
credo che sia stato un momento irripetibile, anche perché gli
investimenti nell’IT erano settoriali. Ora, nel mercato globale,
gli investimenti devono essere globali e quindi, per quanto
riguarda i settori di largo consumo, difficilmente l’Italia
potrà giocare questa partita.
Mentre per quanto riguarda gli altri settori?
L’Italia dovrebbe puntare sulle nicchie ad alto valore aggiunto:
dematerializzazione, politica di governo della finanza… In Italia
ci sono tantissime eccellenze, e io vedo molto spazio per un made
in Italy dell’IT. Basti pensare che il miglior software per la
gestione dei vulcani lo abbiamo fatto noi. Mettendo assieme tante
nicchie nasce un mercato, un’industria. Credo che l’informatica
potrebbe seguire le tracce del mondo dell’arredo casa. Dovremmo
replicare le multinazionali tascabili anche nel settore dell’IT,
dove comunque già ci sono realtà come Txt o Replay. In Italia
abbiamo inventato gli sms, abbiamo le opportunità di crescere ma
il Paese deve investire di più: più occupazione, più
innovazione. Lo ribadisco: tante nicchie fanno un mercato. È ovvio
però che, anche in questa visione, i big standard, come la PA e il
settore Finance potrebbero portare avanti il mercato in maniera
molto forte.
Ma a livello concreto, quali potrebbero essere i primi step
per gli investimenti di cui parla?
Un inserimento del comparto tecnologico nella detassazione degli
investimenti sarebbe importante e stiamo cercando di pressare il
Governo in questo senso. Abbiamo avuto il riconoscimento verbale
che l’IT è un investimento, ma dobbiamo comunque misurarci con
una coperta che è corta e non può coprire tutto. C’è da dire
che l’esecutivo sta facendo una serie di cose importanti per
quanto riguarda l’ottimizzazione della spesa, che libera risorse
per gli investimenti innescando processi virtuosi che spostano la
spesa da quella corrente a quella per investimenti. Se poi si vuole
andare all’estero, non possiamo fare a meno del supporto della
finanza: le nostre imprese sono storicamente sottocapitalizzate, e
questo spesso impedisce loro di conquistare nuovi mercati che
magari potrebbero essere alla loro portata.
Da parte sua il mondo dell’Informatica cosa potrebbe
fare?
Sviluppare l’offerta, soprattutto in termini di filiera. Spesso
ci troviamo a replicare gli investimenti, mentre potrebbe essere
più opportuno realizzarli in maniera congregata e poi
distribuirli. Anche parlando in valore assoluto, investiamo troppo
poco. Rispetto ai competitors europei spendiamo il 40% in meno: se
raggiungessimo il loro livello di investimenti il mercato Ictm,
quindi considerando anche comunicazioni e media, passerebbe da 85 a
108 miliardi, ma a fare la parte del leone sarebbe proprio l’IT
che crescerebbe da 20 a 36 milioni. La sfida è questa: creare
domanda e sviluppare offerta, facendo crescere il valore per tutto
il Paese. Ed è una sfida soprattutto in un momento in cui il 70%
delle aziende sta tagliando la spesa IT, rinunciando a nuovi
progetti ma anche alla manutenzione.
Quale potrebbe essere una strada per fermare questi
tagli?
Una strada è quella di puntare di più sulle best practice: stiamo
lavorando molto in questo senso, con gruppi dedicati a industria,
finanza, PA, università e ricerca.
Un aiuto potrebbe venire, oltre che dal piano per la
digitalizzazione della PA, anche dall’Ngn.
Sì, ma il “New generation networking” non dev’essere un
fine, ma un mezzo, un fattore abilitante indispensabile. E
soprattutto, se vogliamo che sia veramente utile, la rete di nuova
generazione deve essere fatta per le imprese più che per gli
utenti finali. Saranno loro, e soprattutto quelle che lavorano con
l’IT, ad avere bisogno della larghissima banda.