Ormai sembra un bollettino di guerra: dopo Microsoft, Symantec, Kaspersky e Accenture nella lista delle aziende informatiche interdette agli uffici pubblici cinesi c’è entrata pure Apple. Dunque, secondo la circolare diramata ieri dalla commissione per le Riforme e lo sviluppo nazionale e dal ministero delle Finanze, niente più iPad, iPad Mini, MacBook Air e MacBook Pro per i funzionari di Pechino e di tutti gli altri distretti periferici: e un colpo non da poco per Cupertino, che in Cina ha (grazie soprattutto – va specificato – al mercato consumer) la sua seconda piazza, subito dopo quella americana.
La notizia in sé e per sé non desta stupore, visto la piega che hanno preso le agenzie governative cinesi nelle ultime settimane e il trattamento ricevuto sui mass media cinesi da molti brand a stelle e strisce dopo il putiferio scatenato dalle rivelazioni di Edward Snowden. Automaticamente, tutti i marchi che fino a qualche mese fa rappresentavano sicurezza, efficienza e status symbol sono diventati sinonimo di spionaggio e violazione della privacy. Proprio il mese scorso Apple aveva subito un attacco diretto dall’emittente di stato CCTV, che l’accusava di usare politiche poco chiare nella gestione dei dati di geolocalizzaione dei propri clienti. Politiche che avrebbero potuto addirittura portare al disvelamento di informazioni sensibili per la sicurezza nazionale.
La Mela di Cupertino naturalmente ha rispedito l’accusa al mittente, la cui risposta non si è fatta attendere. Stavolta da Apple non è ancora giunto alcun commento. Duncan Clark, head of technology consultancy di BDA a Pechino, ha sottolineato in una dichiarazione rilasciata al Financial Times che il colpo subito da Apple dovrebbe avere conseguenze molto minori di quelli che il governo cinese ha inferto ad altri player, come Microsoft (Windows 8, lo ricordiamo, è stato bandito dagli uffici governativi a maggio), Kaspersky e Symantec (i loro prodotti antivirus sono invece stati bannati la scorsa settimana), i cui bilanci nel Far East dipendono in misura assai maggiore dalle commesse pubbliche.
“E poi il brand mantiene comunque un fortissimo appeal presso i consumatori”, ha spiegato Clark. In effetti il secondo trimestre del 2014 ha fatto segnare per Apple un balzo del 28% delle vendite in Asia (5,94 miliardi di dollari di fatturato), trainate dal mercato cinese e dall’accordo stretto con l’operatore China mobile. Nell’ex Celeste impero, sul fronte degli smartphone, Apple tallona Samsung, Xiaomi, Lenovo e Coolpad con una quota di mercato pari al 10%. Il boom ha riguardato però anche iPad e Mac, “cresciuti nello stesso lasso di tempo rispettivamente del 51 e del 39%”, riportava un entusiasta Tim Cook non più di due settimane fa.
Bisognerebbe capire quanti di quei device erano stati acquistati dalla pubblica amministrazione per fare una stima delle possibili perdite di revenue. A chi prova a far notare al governo cinese che la lista di proscrizione si sta facendo un po’ troppo lunga, ai danni specialmente delle società americane, viene risposto che dopo tutto anche Washington ha escluso dai propri piani di procurement, adducendo le stesse motivazioni legate alla cyber security dietro cui si trincera Pechino, due compagnie cinesi: Huawei e Zte, il cui bando ha fatto assai meno rumore di quelli dei superbrand a stelle e strisce. Di questi, ora a tremare ci sono Ibm, Google, Cisco e Qualcomm, tutte società che nei mesi scorsi sono già state prese di mira dalla stampa cinese. Proprio come Apple.