“L’idea alla base di questa piattaforma fa leva sul solidarismo delle persone, sulla volontà di aiutare, in qualche modo, la ricerca. Ma siamo sicuri che a lungo andare rimanga tutto così?”. Un interrogativo che pone – e si pone – Filomena Polito, presidente di Apihm (Associazione privacy and information healthcare manager) in merito all’utilizzo di Research kit, il nuovo software lanciato da Apple.
L’obiettivo che l’azienda di Cupertino vuole perseguire è semplice: trasformare l’iPhone, diventato per molti un vero e proprio oggetto di “culto”, in un veicolo di ricerca. Entrando nello specifico, si tratta di una piattaforma open source che consente a chiunque di potersi offrire come volontario per test medici da affrontare con il proprio dispositivo, per poi inviare le informazioni alle strutture mediche associate; subito dopo i dati vengono filtrati e utilizzati ai fini delle ricerche scientifiche giungendo direttamente ai ricercatori e offrendo agli stessi volontari l’opportunità di avere risposte più veloci rispetto al passato.
Il punto di forza di Research kit – un’innovazione convincente per diversi enti di ricerca sanitaria negli Stati Uniti, tant’è che alcuni si sono già aggiudicati una serie di applicazioni relative alla salute (create ad hoc) utili a raccogliere e gestire informazioni dei pazienti – risiede quindi nell’opportunità, per un vasto numero di utenti, di aderire alla ricerca. Ma il vero vantaggio è proprio quello di dialogare con i ricercatori e fornire, in modo libero, dei dati utili a risolvere la propria condizione di difficoltà. “Occorre capire di quali dati stiamo parlando, perché in questo modo si cedono informazioni di alto valore economico”, riprende Polito. Dati sensibili, questo è fuori di dubbio, “che potrebbero anche rappresentare la base per un profitto”, precisa il presidente di Apihm.
Dubbi, questi, che al momento non sembrano interessare Apple, secondo cui il nuovo kit renderà soprattutto più agevole, ai ricercatori, l’analisi di un’ampia gamma di dati, poiché le applicazioni “accompagnano” i volontari eliminando qualsivoglia barriera alla partecipazione ai test. Come l’inevitabile distanza fisica. “Research kit rappresenta l’occasione per lavorare sul miglioramento della salute, sfruttando una tecnologia che è già parte della nostra quotidianità”, ammette Ann H. Partridge, medico senior del Dana-Farber cancer institute, uno degli enti di ricerca sopracitati.
“Ma l’aspetto rilevante dovrebbe essere la trasparenza nell’utilizzo delle informazioni e la reale consapevolezza di ciò in coloro che decidono di rendere disponibili i propri dati di salute”, replica – seppur indirettamente – Polito. “Solo in questo caso, infatti, lo scopo diventa davvero nobile e rispettoso dei diritti della persona”, conclude.