Arun Sundararajan: “Il futuro è sharing economy. Il capitalismo delle folle”

Parla il docente della New York University: “È un nuovo tipo di capitalismo che sta contribuendo ad offrire alla gente servizi e soluzioni prima ritenute appannaggio dei più ricchi. Le attività economiche si trasferiscono dagli imprenditori alle persone comuni”

Pubblicato il 21 Ott 2016

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L’idea della sharing economy non è in sé rivoluzionaria: da sempre le persone hanno condiviso spazi abitativi, ma anche mezzi di trasporto o altri beni o servizi per necessità o per scelta. Ma c’era bisogno della giusta innovazione da parte della giusta azienda.

Le startup svolgono un ruolo fondamentale nel lanciare l’idea e implementare quella che funziona. Da dove può venire l’innovazione se non dalle startup? Le università svolgono le loro attività di ricerca, i governi possono finanziare piani ad hoc ma la cosa importante è che le aziende mettano in pratica le soluzioni innovative”. A sottolineare il ruolo delle neoimprese nella sharing economy è uno dei massimi esperti in materia, Arun Sundararajan, docente alla Stern School of Business della New York University, intervistato da EconomyUp.

Autore di un libro intitolato appunto “The Sharing Economy”, Sundararajan studia da tempo questo nuovo modello economico che di volta in volta è stato definito con termini diversi – economia collaborativa, gig economy (economia del lavoretti), servizi on demand – e che sostanzialmente consiste in un sistema di reti e marketplace nei quali si può combinare ciò di cui si ha bisogno con ciò che si possiede bypassando i tradizionali intermediari. L’etichetta con la quale Arun Sundararajan ha scelto di definire il fenomeno è crowd-based capitalism, “capitalismo basato sulle folle”. “Volevo sottolineare come l’organizzazione delle attività economiche si stia trasferendo dagli imprenditori alle persone comuni”.

Tra gli esempi più citati ci sono startup quali AirBnb (affitto temporaneo di abitazioni), BlaBlaCar (scambio di passaggi in auto), Uber (noleggio con conducente da smartphone) e analoghe piattaforme. Questo nuovo tipo di capitalismo, spiega il docente, sta contribuendo ad “offrire alla gente servizi e soluzioni prima ritenute appannaggio dei più ricchi. Un esempio è Drivy, startup nata in Francia nel 2010 che consente di dare a noleggio la propria vettura o noleggiarla da altri. Tra le vetture più gettonate ci sono i veicoli di Tesla Motors, particolarmente prestigiosi perché sfornati da una azienda estremamente innovativa.

Quando crei un mercato di questo tipo stai dando potere alle persone di prendere possesso di beni altrimenti irraggiungibili”. Oltre alle luci, c’è però anche qualche ombra. Una delle critiche più frequenti è che l’avvento dell’economia della condivisione causi la perdita di posti di lavoro o li renda precari. “Dipende dal tipo di azienda” replica Arun. “Per esempio, nel settore dei trasporti, negli Stati Uniti, sono molti i lavoratori che apprezzano la flessibilità. Da una ricerca è emerso che due driver di Uber su tre non desiderano un lavoro fisso, ma un’entrata supplementare. In ogni caso, più andiamo avanti più dovremo smettere di pensare alle nostre entrate come uno stipendio erogato da un datore di lavoro. E non parlo solo dei cosiddetti lavoretti, dall’idraulico al falegname. Esistono già piattaforme per avvocati, o agenti di commercio, dove i professionisti mettono a disposizione i propri servizi.

In Italia è nata CoContest, la startup che ha sviluppato un portale online dedicato alla ristrutturazione di abitazioni attraverso gare tra architetti in crowdsourcing. Questo è il futuro”. Un futuro disruptive per il quale dobbiamo essere ben attrezzati. “Tra 10 o 20 anni – spiega l’esperto –forse non avremo più un’automobile di proprietà. Possiederemo ancora, probabilmente, le nostre case, ma nelle città aumenterà la condivisione di spazi abitativi”. È importante formare i bambini di oggi ad essere futuri cittadini della sharing economy: “Serviranno nuove skills. I giovani dovranno studiare imprenditoria, gestire le proprie idee e trasformarle in business. Altra materia fondamentale sarà il design thinking, modello manageriale di gestione adatto a trattare problemi complessi”. L’Italia sembra ancora lontana da tutto questo. “In realtà – afferma Sundararajan – la cultura italiana si adatta bene all’economia della condivisione.

Però esistono barriere legate alla regolamentazione, ogni regione ha le sue regole e il governo è lento nell’emanarne di nuove. Invece dovrebbe rendersi conto che il vecchio modello non funziona più e che, se non emanerà regole nuove, i servizi non partiranno. Ma se non partono, non si crea lavoro e l’economia ne risente”.

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