La spesa per la sanità digitale italiana ha toccato nel 2017 quota 1,3 miliardi di euro (pari all’1,1% della spesa sanitaria pubblica, 21 euro per abitante), con una crescita del 2% rispetto all’anno precedente:un risultato non brillante ma che spicca per il segno più; l’anno scorso la spesa nel digitale era in contrazione. Il quadro resta in ombra: i servizi digitali sono diffusi a macchia di leopardo sul territorio italiano e la maggior parte dei cittadini non utilizza ancora strumenti via web per accedere ai servizi sanitari; circa l’80% degli italiani preferisce recarsi personalmente a ritirare documenti clinici, consultare un medico o pagare una prestazione, sette su dieci preferiscono parlare di persona con il proprio medico piuttosto che comunicare con strumenti tecnologici come email, Sms o WhatsApp. Sono alcuni dei risultati della ricerca dell’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità della School of Management del Politecnico di Milano (www.osservatori.net), presentata questa mattina a Milano al convegno “Sanità e digitale: uno spazio per innovare”.
La quota principale degli investimenti per la sanità digitale è stata sostenuta dalle strutture sanitarie, con un budget di 890 milioni di euro (+2% sul 2016), seguite dalle Regioni (320 milioni, +3%), dai 47mila medici di Medicina Generale (72,9 milioni di euro, in leggera crescita con una media di 1.551 euro) e dal ministero della Salute (16,7 milioni di euro, stabile). Tra i principali ambiti di innovazione, i budget più significativi vanno alla Cartella clinica elettronica (47 milioni di euro), ai sistemi di front-end (45 milioni) e al disaster recovery (31 milioni). La Cartella clinica elettronica è anche l’ambito più rilevante per il raggiungimento degli obiettivi strategici, indicato dal 72% delle Direzioni Strategiche, seguito dai servizi digitali ai cittadini (59%) e dalla gestione documentale e conservazione a norma (55%). Cresce la spesa per la Telemedicina (24 milioni di euro), ma la diffusione rimane stabile e solo il 38% dei Direttori la considera rilevante. Big Data Analytics e Business Intelligence sono prioritari per quasi un’azienda su due, anche in vista del Gdpr per cui il 76% delle aziende ha revisionato policy e processi.
I medici sono sempre più attenti alle nuove tecnologie, che utilizzano soprattutto per comunicare con i pazienti. È il caso, ad esempio, di WhatsApp, usato dal 63% dei medici di famiglia e dal 52% degli specialisti soprattutto per scambiare facilmente dati, immagini e informazioni. Meno digitali i cittadini: solo il 15% usa l’email, il 13% Sms e il 12% WhatsApp per comunicare col proprio medico.
L’offerta e l’utilizzo di semplici servizi digitali ai cittadini potrebbero ridurre i costi nascosti del “non digitale”. Otto italiani su dieci nell’ultimo anno hanno ritirato documenti clinici di persona impiegando in media 45 minuti, contro i 20 per il ritiro in farmacia e i 5 via web: se invece l’80% li ritirasse online, il 10% in farmacia e solo il 10% di persona, l’impatto economico sarebbe di 1.630 milioni di euro. E sono 1.150 milioni di euro gli impatti legati all’accesso online a informazioni su prestazioni e strutture sanitarie, 1.430 milioni per la prenotazione online di visite ed esami e 980 milioni per il loro pagamento, per un totale di oltre circa 5 miliardi di euro.
“Con il progressivo invecchiamento della popolazione il divario fra bisogni di cura e risorse a disposizione è destinato a crescere e l’innovazione digitale è l’unica leva per rendere sostenibile il sistema sanitario – afferma Mariano Corso, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità -. La leggera crescita degli investimenti per la sanità digitale è una buona notizia, ma non basta per colmare il divario esistente. Serve un rinnovamento dei modelli organizzativi delle aziende sanitarie, spostando le prestazioni dall’ospedale al territorio e migliorando l’accesso alle cure. È necessaria la partecipazione attiva dei cittadini alla corretta gestione della propria salute, da incentivare attraverso l’adozione di strumenti digitali utili per comunicare col medico, per accedere ai propri dati clinici, come il Fascicolo sanitario elettronico, e per monitorare il proprio stile di vita, come le app. Serve infine lo sviluppo delle necessarie competenze digitali degli operatori sanitari, sia nelle università che attraverso piani di formazione continua sul posto di lavoro”.
I servizi digitali rivolti ai cittadini restano comunque al centro dell’attenzione delle Direzioni strategiche, con il 59% dei direttori che li considera un ambito prioritario (+3% sul 2016) e un budget di 19 milioni di euro (contro i 14 milioni dell’anno scorso). I servizi maggiormente diffusi sono la possibilità di scaricare i referti via web, di confermare, ricordare ed eventualmente disdire appuntamenti, e di prenotare le prestazioni online. In oltre la metà dei casi, questi servizi sono messi a disposizione direttamente dalla Regione e circa un terzo delle aziende offre almeno un servizio tramite app. Ad oggi, invece, non sono ancora presenti aziende che consentano all’utente di interagire con un assistente virtuale (chatbot) per la richiesta di informazioni, seppur l’8% preveda di introdurlo entro la fine del 2018. “I dati sulla crescita degli investimenti in servizi digitali sono incoraggianti, perché dimostrano una crescente consapevolezza dell’importanza di portare il supporto informatico ai processi in sanità fino al cittadino e al paziente – sottolinea Paolo Locatelli, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità. – I diversi attori del sistema sanitario devono però fare sistema sui servizi digitali, così che le soluzioni aziendali, regionali e nazionali interagiscano in un ecosistema che abilita una comunicazione fluida ed integrata. Il potenziamento dell’offerta di servizi digitali è indispensabile anche per diffondere la cultura digitale, tra gli operatori sanitari come tra i pazienti, spingendo i cittadini a sfruttare le potenzialità del digitale per accedere ai servizi”.
In linea con la tendenza delle Regioni italiane a favorire l’integrazione tra ospedale e territorio, anche le aziende sanitarie hanno sempre più l’esigenza di scambiare tempestivamente le informazioni sui pazienti con gli altri attori del sistema. Le soluzioni che abilitano l’interscambio di dati e documenti sui pazienti attraverso Piani Diagnostici Terapeutici Assistenziali (PDTA) informatizzati sono tuttavia ancora poco diffuse: il 29% delle aziende le utilizza con professionisti sanitari dell’azienda ospedaliera appartenenti a diversi dipartimenti e il 23% con professionisti all’interno di una o più reti di patologia. Allo stesso modo, solo il 19% dei Medici di medicina generale ha attivo un flusso informativo che rientra nell’ambito di un PDTA.
Inoltre, sulla base di una rilevazione effettuata su 600 Medici di medicina generale in collaborazione con la FIMMG, emerge che solo il 9% dei medici utilizza strumenti informatici per redigere il Piano di Assistenza Individuale da condividere poi con il paziente, anche se ben il 69% si dichiara interessato a utilizzarlo. Le barriere all’uso di strumenti digitali sono principalmente legate alle risorse: soltanto il 15% ritiene l’attuale disponibilità di tempo e risorse umane sufficiente a effettuare la prenotazione online di una prestazione all’atto della prescrizione, mentre la maggior parte (63%) pensa che questo sia praticabile solo ad alcune condizioni, legate alla presenza di personale di studio dedicato (64%) e alla valorizzazione economica del compito (61%).
“Complessivamente, emerge una crescente consapevolezza che le soluzioni digitali potrebbero giocare un ruolo fondamentale nel supportare la transizione verso nuovi modelli di cura che, per loro natura, richiedono collaborazione tra gli attori del sistema e integrazione di informazioni e servizi – sottolinea Cristina Masella, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità -. La diffusione di tali soluzioni, tuttavia, stenta oggi a realizzarsi perché manca una orchestrazione coerente della transizione al digitale e perché oneri, rischi e benefici attesi dall’introduzione di nuovi strumenti e modalità di lavoro non sono percepiti come ripartiti equamente fra gli attori del sistema”.
La telemedicina, dopo la forte crescita di interesse e investimenti dello scorso anno, è un ambito stazionario, con una diffusione capillare ancora lontana. La spesa è aumentata lievemente rispetto all’anno precedente (24 milioni, erano 20 nel 2016), ma, nonostante si parli ormai da molti anni di queste soluzioni, soltanto il 38% dei Direttori delle aziende sanitarie lo reputa un ambito rilevante.
Business Intelligence e Big Data Analytics sono considerate aree strategiche sia per il presente sia per il futuro: nonostante una leggera flessione degli investimenti (13 milioni, contro i 15 del 2016) il 45% dei direttori li indica come ambiti prioritari, mentre il 70% delle Direzioni e il 55% dei CIO ritengono che l’applicazione dei Big Data Analytics per la medicina di precisione sarà l’ambito che avrà il maggior impatto nei prossimi cinque anni. Tuttavia, è altrettanto diffusa fra i CIO l’idea che siano gli ambiti con la più elevata complessità di realizzazione, soprattutto a causa delle limitate risorse economiche a disposizione, della difficoltà nell’implementare questi progetti e della mancanza di competenze interne. Il grande interesse e dinamismo attorno ai Big Data Analytics è collegato anche all’obbligo di adeguare i processi di raccolta, analisi e utilizzo dei dati sui pazienti al nuovo Regolamento europeo sulla Protezione dei Dati Personali (Gdpr), applicato a partire dal 25 maggio. Il tema dovrà essere gestito dal Data Protection Officer (DPO), un nuovo ruolo organizzativo che nel 55% delle strutture sanitarie del campione sarà ricoperto da personale esterno all’azienda. Per prepararsi alla normativa, l’82% delle aziende ha condotto un data audit – un’analisi dei dati gestiti dall’azienda e dei processi che li utilizzano per evidenziare cosa manca per adeguarsi al Gdpr – e il 76% ha revisionato e aggiornato le proprie policy e processi.
La maggior parte dei cittadini italiani preferisce ancora accedere ai servizi sanitari di persona, soprattutto se si tratta di un consulto medico (86%), del pagamento delle prestazioni (83%) e del ritiro dei referti (80%). L’indagine condotta dall’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità in collaborazione con Doxapharma su un campione di 2.030 cittadini mostra che è ancora il telefono lo strumento privilegiato per prenotare visite ed esami (51%), mentre l’uso del canale web appare abbastanza limitato e confinato alle fasi di accesso alle informazioni su prestazioni e strutture sanitarie (40%) e ritiro dei documenti clinici (21%). Soltanto la fascia anagrafica dei 45-54enni mostra valori di utilizzo del digitale sopra la media in entrambe le operazioni (rispettivamente 47% e 27%). Un cittadino su quattro dichiara di utilizzare app per cercare le farmacie di turno (25%), uno su cinque per trovare la farmacia più vicina e il 19% per informarsi sui farmaci. Accanto alle app informative si diffondono anche quelle di “coaching”: il 19% dei cittadini utilizza app per monitorare lo stile di vita (ad esempio, l’alimentazione e gli allenamenti), il 12% per controllare i parametri vitali (battito, pressione, ecc.), il 7% per ricevere avvisi su controlli medici o esami periodici. L’adozione di questi strumenti diminuisce fra i cittadini con più di 55 anni o affetti da malattie croniche.
“Le app per accedere a servizi e informazioni di tipo sanitario non sono ancora particolarmente diffuse, perché l’offerta da parte di Regioni e aziende sanitarie non è matura o comunicata correttamente agli utenti – afferma Emanuele Lettieri, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità -. Alla mancanza di offerta si aggiunge la limitata affidabilità percepita di questi strumenti sia da parte delle fasce di cittadini più diffidenti nei confronti delle tecnologie sia da parte dei medici che, soprattutto per le app di coaching, chiedono che i mezzi digitali siano certificati e valutati in termini di costo-efficacia. Per avvicinare i cittadini al digitale, dunque, è necessario aumentare l’offerta di servizi, rendendoli più facili da usare e mettendone in luce l’affidabilità e il valore”.
Dalla ricerca emerge come il rapporto col proprio medico sia ancora fondamentale nell’accesso alle informazioni di tipo sanitario. Risulta infatti il primo canale consultato quando si soffre di influenza (74%), per avere informazioni sui vaccini (74%), per interpretare un esame diagnostico (81%) e per informarsi su una grave situazione di salute (56%). Più alto il livello di utilizzo degli strumenti digitali da parte dei medici specialisti e di famiglia con i loro pazienti. Anche in questo caso il mezzo più utilizzato è l’email (77% tra gli specialisti e 83% tra i medici di famiglia), seguita da WhatsApp (52% e 63%) e SMS (46% e 61%). “L’utilizzo di strumenti digitali per comunicare con i propri pazienti è un segnale positivo di come i medici stiano sempre più acquisendo consapevolezza sull’importanza del digitale, che consente di rendere più veloce ed efficace lo scambio di informazioni – osserva Chiara Sgarbossa, Direttore dell’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità -. Si parla tuttavia di strumenti basilari, che spesso non necessitano di formazione specifica né di un cambiamento profondo a livello culturale. È importante, invece, che i medici siano sempre più attenti alla propria formazione rispetto alle competenze digitali necessarie allo sviluppo di nuovi progetti di innovazione digitale utili a migliorare i processi e i servizi sanitari”.
Infine, sulle competenze digitali in sanità, dalla survey condotta dall’Osservatorio su 116 direttori di aziende sanitarie, 600 medici di medicina generale e 2.771 medici specialisti emerge come fra i principali ostacoli all’adozione delle tecnologie digitali, subito dopo le limitate risorse economiche (indicate dal 73% dei Direttori, 50% dei medici specialisti e 48% dei MMG), figurino la scarsa cultura digitale (rispettivamente 43%, 45%, 41%), la scarsa conoscenza delle potenzialità degli strumenti digitali (32%, 41%, 40%) e la mancanza di competenze nel loro utilizzo (24%, 41%, 39%).