Facebook può essere costretta a ricercare e a individuare tutti i commenti identici a un commento diffamatorio di cui sia stata accertata l’illiceità, nonché commenti equivalenti se provenienti dallo stesso utente. E’ quanto sostiene l’Avvocato generale della Corte Ue Maciej Szpunar, secondo il quale “il diritto dell’Unione invocato non disciplina la questione se Facebook possa essere costretta a rimuovere i commenti a livello mondiale”. Il caso ha coinvolto la deputata alla Camera dei rappresentanti del Parlamento austriaco e portavoce nazionale dei Verdi che ha chiesto ai giudici austriaci di emettere un’ordinanza cautelare nei confronti di Facebook per porre fine alla pubblicazione di un commento diffamatorio.
Il caso ha origine nella condivisione da parte di un utente di Facebook, sulla sua pagina personale, di un articolo della rivista di informazione austriaca online “oe24.at” intitolato “I Verdi: a favore del mantenimento di un reddito minimo per i rifugiati”. Tale pubblicazione ha avuto come effetto di creare su Facebook un “riquadro anteprima” del sito “oe24.at”, con titolo e un breve riassunto dell’articolo, nonché una fotografia dell’esponente verde Glawischnig-Piesczek. L’utente di Facebook aveva inoltre pubblicato un commento degradante nei confronti della deputata austriava che poteva essere consultato da qualsiasi utente di Fb.
Dato che Facebook non aveva reagito alla sua richiesta di cancellare tale commento, Glawischnig-Piesczek aveva chiesto che venisse ordinato alla società “di cessare la pubblicazione e/o diffusione di foto che la ritraessero qualora il messaggio di accompagnamento avesse diffuso affermazioni identiche al commento in questione e/o dal contenuto equivalente”. Poiché il giudice di primo grado aveva emesso l’ordinanza cautelare richiesta, Facebook aveva disabilitato in Austria l’accesso al contenuto inizialmente pubblicato.
La Corte Suprema, investa della controversia, ritenne che le dichiarazioni pubblicate su Facebook mirassero a ledere l’onore della deputata, a ingiuriarla e a diffamarla. Chiamato a statuire sulla questione se il provvedimento inibitorio possa anche essere esteso, a livello mondiale, alle dichiarazioni testualmente identiche e/o dal contenuto equivalente di cui Facebook non è a conoscenza, la Corte austriaca ha chiesto alla Corte di giustizia di interpretare in tale contesto la direttiva sul commercio elettronico. In base alle norme europee, un host provider (cioè un gestore di una piattaforma di social network come Facebook) in linea di principio non è responsabile delle informazioni memorizzate da terzi sui suoi server qualora non sia a conoscenza della loro illiceità. Tuttavia, una volta avvertito della loro illiceità, deve cancellarle o bloccarne l’accesso. Inoltre, la direttiva prevede che a un host provider non possa essere imposto un obbligo generale di sorvegliare le informazioni da esso memorizzate o un obbligo generale di ricercare attivamente i fatti o le circostanze che rivelano attività illecite.
L’Avvocato generale Szpunar ritiene che la direttiva sul commercio elettronico “non osti a che un host provider che gestisce una piattaforma di social network, quale Facebook, sia costretto, mediante un provvedimento ingiuntivo, a ricercare e ad individuare, tra tutte le informazioni diffuse dagli utenti di tale piattaforma, le informazioni identiche a quella qualificata come illecita dal giudice che ha emesso tale provvedimento ingiuntivo”.
Ciò consente di garantire un giusto equilibrio tra i diritti fondamentali coinvolti (protezione della vita privata e dei diritti della personalità, libertà d’impresa, d’espressione e d’informazione). Da un lato, non richiede strumenti tecnici sofisticati, che potrebbero rappresentare un onere straordinario. Dall’altro lato, tenuto conto della facilità di riproduzione delle informazioni nell’ambiente Internet, risulta necessario per garantire la protezione efficace della vita privata e dei diritti della persona. Non solo: il provider “può anche essere costretto a ricercare e individuare le informazioni equivalenti a quella qualificata come illecita, ma unicamente tra le informazioni diffuse dall’utente che ha divulgato l’informazione”.
Un giudice che statuisce sulla rimozione di tali informazioni equivalenti “deve garantire che gli effetti del suo provvedimento ingiuntivo siano chiari, precisi e prevedibili e procedere a un bilanciamento tra i diritti fondamentali coinvolti tenendo conto del principio di proporzionalita”. Un obbligo di individuare informazioni equivalenti provenienti da qualsiasi utente “non garantirebbe un giusto equilibrio tra i diritti fondamentali” perché la ricerca richiederebbe soluzioni costose e si arriverebbe a una censura, per cui “la libertà di espressione e di informazione potrebbe essere sistematicamente limitata”. Inoltre, dato che la direttiva non disciplina la portata territoriale di un obbligo di rimozione delle informazioni diffuse tramite una piattaforma di social network, “non osta a che un host provider sia costretto a rimuovere siffatte informazioni a livello mondiale”.
Peraltro, la portata territoriale “non è neppure disciplinata da altre disposizioni del diritto dell’Unione”. Infine, l’Avvocato generale ritiene che la direttiva non osti a che un host provider “sia costretto a rimuovere informazioni equivalenti a quella qualificata come illecita qualora gli siano state segnalate dall’interessato, da terzi o da altra fonte, in quanto, in un caso del genere, l’obbligo di rimozione non implica una sorveglianza generale delle informazioni memorizzate”.