Bevilacqua: “Basta immobilismo: individuare le priorità e partire”

Il numero uno di Cisco Italia: “Troppo spesso abbiamo puntato a difendere solo meri interessi aziendali sottovalutando l’importanza di fare sistema”

Pubblicato il 15 Nov 2010

"La cosa peggiore è l’immobilismo: da anni ci crogioliamo
in un’alternanza di aspettative e ritardi che non porta a nulla.
Bisogna decidere quali sono le priorità e partire. E poi, non è
detto che lo Stato debba investire chissà cosa. Nel Nord Europa
hanno iniziato con investimenti minimi, a livello locale: però
sono stati fondamentali per mettere in moto il processo di
cablatura». David Bevilacqua, Ad di Cisco Italia, invita la
politica ad assumere un ruolo di leadership e regia. E tra le
priorità-Paese mette la banda larga.

“Capisco che non si possa fare come Giappone o Corea. Però
dobbiamo darci l’obiettivo di cablare in fibra ottica l’intero
territorio, mettendo subito in moto meccanismi che consentano di
raggiungere l’obiettivo. Mobilitando tutte le risorse pubbliche,
ma soprattutto private, affidandosi a iniziative di project
financing. Se c’è una direzione di marcia chiara, non sarà un
problema a trovare i fondi necessari”.

Sottovaluta le cesoie di Tremonti.
I soldi vanno cercati dove ci sono. Ad esempio in Europa, dove
riusciamo ad attingere molto meno degli altri. Più che di soldi
pubblici, indispensabili nelle aree a fallimento di mercato, c’è
necessità di iniziativa politica. Va creata una cabina di regia
che affronti temi come il digital divide e il coordinamento delle
iniziative che stanno nascendo a livello locale, ancora in modo
sparso. L’Italia ha perso produttività e competitività; abbiamo
i problemi dell’invecchiamento della popolazione, della
disoccupazione giovanile, del debito, della spesa pubblica da
rendere efficiente, della PA da digitalizzare. Ci vorrà pure un
filo che tenga insieme il tutto. Dobbiamo imparare a fare sistema:
la guida non può che essere politica.

Cosa c’entra la cablatura dell’Italia?
C’entra perché la banda larga è la pipeline su cui passa
l’adozione di tecnologie e di servizi diversi e migliori ai
cittadini. Può mettere in moto investimenti preziosi in tempi di
crisi, ma soprattutto è una tecnologia abilitante per una grande
trasformazione del Paese, per metterlo all’altezza della
competizione globale. La banda larga è un tema centrale. Speriamo
che quelle iniziative in Lombardia e Trentino, i progetti di
Telecom Italia sulle 13 città, il piano “fibra per l’Italia”
degli Olo contribuiscano a smuovere la situazione. Dobbiamo
integrare il tutto in un’infrastruttura di Paese.

Per molti si può rinviare.
È una posizione miope, che guarda l’oggi e sottovaluta il domani
è già arrivato. Abbiamo bisogno di banda ultralarga. E sa
perché? Perché la killer application c’è già e si chiama
video. E non mi riferisco solo a YouTube o all’Iptv in tutte le
sue declinazioni. Mi riferisco ad applicazioni business, a quelle
che servono alle aziende italiane per rimanere competitive sui
mercati internazionali. Voglio farle un esempio: il nostro centro
ricerche di Monza occupa 230 ricercatori, tutti italiani:
matematici, fisici, ingegneri. È un centro di livello mondiale.
Ogni volta che qualcuno utilizza i nostri apparati nel mondo per il
trasporto broadband, compra know how italiano. I ricercatori
lavorano insieme a ingegneri che operano in Usa, Cina, India.
Vivono di banda ultralarga, di videocomunicazione, di telepresenza.
Con le infrastrutture attuali ancora ce la facciamo a gestire la
collaborazione e i talenti che abbiamo in azienda ci consentono di
superare il gap dei costi italiani. Ma le applicazioni di domani
richiederanno infrastrutture diverse: se non saranno disponibili,
sarà difficile difendere le nostre eccellenze.

Che fa, copia Marchionne?
Cisco crede nell’Italia. Abbiamo investito dieci anni fa
acquisendo, per due miliardi di euro, la fotonica di Pirelli.
Abbiamo ribadito il nostro interesse partecipando adesso
all’aumento di capitale di Italtel.

Come ha convinto gli americani?
Italtel è una bellissima realtà, con eccellenze tecnologiche,
come i soft-switch, apprezzate anche all’estero. E poi c’è
fiducia nel management, in persone come De Julio e Pileri.
Ovviamente, non è stato semplice, anche perché Cisco è
un’azienda globale con richieste di investimento da tutto il
mondo, in particolare dai mercati emergenti dove le opportunità di
rientro sono più veloci. E poi ci si aspetta che l’Italia non
perderà il treno dell’ultrabroadband, che l’ammodernamento del
Paese ci sarà. Nonostante le difficoltà e i ritardi che, tra
l’altro, stanno minando la solidità del manifatturiero tlc: un
settore che in Italia ha una lunga storia di eccellenze ed occupa
decine di migliaia di persone. Se non partono progetti importanti,
sarà sempre più difficile sostenere la presenza di questo tipo di
investimenti in Italia.

Punta l’attenzione sulla fibra. Ma c’è un rapido
sviluppo dei collegamenti mobili, Hsdpa+ e poi Lte.

Collegamenti a 100 Mb, con una forte simmetria nell’upload, con
qualità del servizio assicurata e costi competitivi sono in
prospettiva necessari. Solo la fibra può offrire tutto questo. Ci
arriveremo magari fra 10 anni, ma ci si arriverà. Penso che i
clienti, a partire dalle aziende, siano disponibili a pagare un
premium per la qualità: throughput e latenza sono altrettanto
importanti di velocità e copertura.

Avete lanciato un progetto di prevenzione per i vostri
dipendenti da remoto.

Ogni anno facciamo il check dello stato di salute dei nostri 700
dipendenti. Invece di farli andare in un centro medico,
quest’anno facciamo tutto dall’ufficio grazie al collegamento
in telepresenza con un ospedale milanese. Con vantaggi per la
qualità della vita delle persone che non devono spostarsi, la
produttività, il servizio, l’ambiente.

È un progetto pilota.
Appunto. In Italia si fanno anche molti progetti pilota. Ma poi
restano tali, non si diffondono non diventano iniziative reali di
business transformation che coinvolgono aziende e pubblica
amministrazione. E spesso non c’è niente da inventare. Si tratta
di replicare esperienze già realizzate altrove. Soprattutto nel
mondo pubblico dove non esiste il fattore competitività: c’è
bisogno di maggiore condivisione di quello che si è fatto altrove.
Troppo spesso, invece, vincono le logiche della frammentazione e
del localismo.

Non dovrebbero fare un po’ di mea culpa anche le
aziende?

Non pretendo che le aziende siano esenti da colpe. Facciamo parte
del sistema e se il sistema esprime tutti questi limiti è anche
perché noi non abbiamo saputo fare in pieno il nostro dovere.
C’è stato un orientamento troppo limitato al prodotto o al
breve, quando le trasformazioni richiedono almeno tre-quattro anni.
Troppo spesso abbiamo puntato a difendere solo i meri interessi
aziendali sottovalutando l’importanza di fare sistema. Se
un’azienda va bene ma tutto il comparto va male, prima o poi
anche quell’azienda ne subirà gli effetti negativi.

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