FENOMENO DATI

Big data: business, non moda

L’ampia disponibilità di informazioni sta già trasformando grandi aziende e Pubbliche amministrazioni e apre interessanti prospettive per i singoli utenti consumer. Google fra i colossi in campo pronti a trarre profitto dalla partita dei dati

Pubblicato il 01 Lug 2013

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Cinque anni fa non esisteva neanche un termine per definirli. Oggi i Big data sono una delle locuzioni più usate dagli esperti di tecnologia e vengono proposti come una dotazione obbligatoria per le grandi aziende e la soluzione per tutti i problemi.
La definizione di Big data, un termine che è stato coniato dal Computer Community Consortium nel 2008, è tutt’oggi vaga: per Jon Kleinberg, docente di informatica alla Cornell University nello stato di New York “il termine è di per sé vago ma indica qualcosa di reale. Big data è l’etichetta sotto la quale pulsa un processo che ha la potenzialità di trasformare tutto”. Per tutto gli informatici e gli esperti di business intendono realmente dire tutto: dal modo di fare business al settore pubblico sino ai personal data. Creando ricchezza: da un’analisi di Gartner risulta infatti che i Big data creeranno 4,4 milioni di posti di lavoro entro il 2015 in un mercato che varrà 3.700 miliardi di dollari a fine 2013.
Grazie al proliferare di social media, cloud e computer in mobilità (dagli smartphone ai tablet) aumentano la ricchezza e quindi le potenzialità dei Big data. Nel settore delle imprese i Big data possono essere utilizzati per fare analisi dei rischi e delle opportunità di mercato, scoprendo nuovi modelli business. Possono aiutare nella comprensione dei bisogni dei clienti e migliorare le operazioni, senza contare che permettono anche di ottimizzare futuri prodotti e servizi.


E mentre gli analisti di Borsa utilizzano i Big data per estrarre informazioni sui possibili mutamenti del mercato, Hollywood li usa per dare forma alle sceneggiature dei blockbuster e cercare di trovare la formula del film perfetto. Traguardi non impossibili per gli entusiasti del nuovo paradigma tecnologico, come la coppia Kenneth Cukier e Viktor Mayer-Schonberger, che ha pubblicato negli Usa “Big Data: A Revolution That Will Transform How We Live, Work, and Think”, il best-seller del settore, una vera “apologia del dato” che sta vendendo molto bene anche fuori dagli Usa. “Il volume delle informazioni cresce al ritmo di 2,5 exabyte al giorno (2,5 milioni di terabyte), tanto che il 90% delle informazioni digitali del pianeta è stato creato negli ultimi due anni” dicono i ricercatori di Ibm. Solo Twitter genera ogni giorno 12 Tb di cinguettii in rete.

A contribuire, oltre alle aziende e i privati, ci sono anche le informazioni prodotte nel settore pubblico: dagli open data ai sistemi che permetteranno di creare maggiore trasparenza grazie a standard per l’esportazione delle informazioni.
Secondo gli esperti i Big data nel settore pubblico potranno aiutare a fornire alle persone nella veste di cittadino la qualità del servizio che solitamente ottengono come cliente: miglioramento dei servizi, ottimizzazione delle risorse, controllo della performance e razionalizzazione della spesa, individuazione “facile” degli evasori. Senza contare che ad esempio nella prevenzione del crimine o nel contrasto alla disoccupazione i Big data possono fornire aiuti sostanziali. In più, il capitolo delle Smart city basa sui Big data la possibilità di gestire meglio la complessità e ridurre gli sprechi aumentando la vivibilità delle città. Non a caso tutti i più grandi attori del settore hi-tech si sono buttati a capofitto in questo nuovo mercato dell’informazione applicata all’urbanistica.

L’uso dei Big data sta trasformando non solo le grandi aziende e le PA: la disponibilità ampia di informazioni permette infatti di trovare interessanti prospettive anche nella prospettiva dei singoli, come Google che offre strumenti di analisi statistica della propria posta Gmail per sapere quanti messaggi spediamo, riceviamo, cancelliamo, quali sono i giorni dell’anno più “occupati” e quali i più leggeri.
In realtà la tendenza a raccogliere dati per misurare ad esempio le proprie performance fisiche ogni giorno ha già un nome: il “quantified self”, misurare se stessi, che fa parte della più ampia tendenza al “self tracking”. Dalla salute e forma fisica alle spese domestiche, dalle abitudini alimentari a tutte quelle informazioni puntuali che vengono offerte da decine di sistemi per il benessere (in questo settore la francese Withings è all’avanguardia con le sue bilance wi-fi intelligenti e sensori per il sonno), permettono da un lato al singolo di vivere meglio, dall’altro di aumentare in maniera radicale le informazioni ad esempio per la ricerca scientifica in ambito medico, psicologico e sociale. Con l’obiettivo di trasportare nel privato le strategie delle aziende per la gestione dei dati, infatti, la misurazione delle attività fisiche, dell’umore, delle abitudini personali e lavorative di milioni di persone potrebbe far emergere nessi finora inediti nello studio ad esempio delle allergie, delle cardiopatie o del diabete, e anche delle patologie psicologiche, dei comportamenti devianti come dei flussi sociali.

Per i difensori della privacy, ma anche per gli analisti e gli scienziati più prudenti, quella dei Big data è una moda e una mania. Che rischia di generalizzare soluzioni buone solo per alcuni ambiti, e invece creare un regime in cui tutte le informazioni vengono raccolte e schedate con risultati che rischiano di compromettere la libertà e l’autonomia delle persone. Non solo dal punto di vista politico, ma anche della vita quotidiana: come ad esempio le compagnie assicurative, che secondo i critici dei Big data possono negare polizze a soggetti dai quali si attendono un arco di vita ridotto grazie all’analisi di dati apparentemente scollegati tra loro.

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