Lo scetticismo attorno ai big data sta lasciando spazio all’entusiasmo. E questo non accade solo per le grandi organizzazioni: anche i piccoli trovano opportunità inedite di business dall’analisi di grandi moli di dati non strutturati erogati in grandi quantità da sorgenti diverse. Con l’Internet delle cose alle porte e la penetrazione sempre più capillare del digitale nella vita delle persone e delle aziende, infatti, la raccolta e l’analisi automatica (machine learning) dei dati è quella che produce l’oro digitale di domani. E forse anche di stasera. C’è chi ha studiato a lungo il tema Big data passando dallo scetticismo a una attenzione seria rivolta alle aziende. Negli Usa spicca Tom Davenport, senior advisor di Deloitte e accademico di fama.
“Ci sono vari aspetti dei Big data che possono contribuire all’innovazione anche per le vostre Pmi”, dice a CorCom. Il tema è ampio: “I Big data sono un ottimo modo per imparare di più sul mondo esterno, su clienti e potenziali tali, fornitori e altri fattori che possono avere un impatto sulle piccole aziende che alle volte non hanno sistemi transazionali capaci di creare dati “puliti” e adatti a questo tipo di analisi. Ma per fortuna ci sono sorgenti esterne, come i social media e gli open public data, che possono fornire ciò che serve”. Il limite è diverso da quel che si pensi: non è l’hardware (“per questo esiste il cloud che riduce la spesa drasticamente”) o il software (“l’open source in questo settore è sovrano”) quanto i talenti e le competenze, che sono scarsi in questa fase ma che in realtà fanno la differenza. “L’errore da evitare – dice Davenport – è cominciare a esplorare i Big data senza alcuno scopo di business e obiettivo concreto. Oppure tenerli separati dai dati interni dell’azienda e analizzarli in modo differente”. Niente più silos, dunque.
La promessa dei Big data porta con sé delle conseguenze molto grandi. Studiando i Big data si può lavorare con software sofisticati che manipolano le informazioni e ne estraggono il significato implicito, invisibile senza la capacità di creare correlazioni impreviste a priori. Si passa dal semplice sapere che cosa succede in modo descrittivo, caratteristico della business intelligence tradizionale, alla comprensione delle cose, cioè al perché succedono le cose. Questi modelli, basati sul cosiddetto machine learning (fatto di sistemi automatici di apprendimento che letteralmente “imparano” il significato delle informazioni e le trasformano in conoscenza) permettono di predire cosa succederà, cioè avere modelli capaci di formulare ipotesi su cosa faranno i consumatori piuttosto che i mercati finanziari oppure quali parti di un impianto industriale si logoreranno per prime e andranno quindi sostituite in modo proattivo.
“Il senso profondo di questo tipo di analisi – spiegano gli esperti – è che permette di capire quel che sta succedendo e formulare proposte di valore”. Il cambiamento oltretutto passa attraverso il mercato dei consumatori: sono i sistemi come gli assistenti personali contenuti nei telefoni cellulari che interagiscono con il cloud quelli che promettono per primi di rivoluzionare le nostre vite: il telefono vibra e ci ricorda che se vogliamo arrivare in tempo dobbiamo muoverci subito perché, sul tragitto per andare al nostro appuntamento rispetto al posto dove ci troviamo secondo il Gps del telefono, il traffico è peggiorato e ci vogliono 15 minuti di più. Oppure l’orologio ci informa che oggi abbiamo camminato poco, la nostra pressione e la presenza di glucosio nel sangue sono alterate e ci consiglia di stare in piedi anziché seduti per fare la prossima telefonata: quanto basta per consumare un pugno di calorie in più.
Questo tipo di soluzioni, che sono già presenti nel marketing di Apple, di Google e di Microsoft, adesso cominciano ad essere alla portata anche delle soluzioni per le Pmi. Che hanno il vantaggio di poter accedere più rapidamente a queste tecnologie tramite il cloud perché non sono vincolate da investimenti di capitale in centri dati obsoleti che però debbano ancora essere ammortizzati.
“Dopotutto – dice Davenport – le conseguenze dei Big data sono notevoli: permettono di avere uno sguardo sul mondo esterno all’organizzazione, creare nuovi prodotti e servizi per i clienti e gestire gli apparecchi prodotti anche a distanza”.
Tramite i Big data si ripetono quei cambiamenti nell’organizzazione mondiale del lavoro a causa di Internet che Thomas Friedman, giornalista del New York Times, aveva descritto dieci anni fa nel suo libro “Il mondo è piatto”. Questa volta non sono il pc, la rete e i software per la produttività a innestare il cambiamento, ma la possibilità di raccogliere una mole inedita di dati e trovare nuove informazioni che innescano possibilità di business per grandi e piccole imprese.