Il codice di procedura penale consente al giudice di surrogare gli arresti domiciliari, mediante l’adozione del cosiddetto “braccialetto elettronico”. Tripwire additò anni fa l’inadeguatezza dei contratti stipulati dalla PA con la Telecom. Più tardi, nella sua relazione al Parlamento del 2014, la Corte dei Conti rese noto che i quattordici bracciali della Telecom, entrati in funzione nei dieci anni precedenti, costarono 80milioni, cioè quasi sei milioni a bracciale.
Che qualcosa tuttora non funzioni è testimoniato da una sentenza della Cassazione che dà ragione a un detenuto, trattenuto in cella nonostante il giudice gli avesse prescritto gli arresti domiciliari, perché non vi era adeguata disponibilità del “prezioso” braccialetto. È ingiusto che l’inefficienza della PA esasperi l’espiazione della pena. Giusto. Però interroghiamoci sulle ragioni di tale inefficienza.
Un braccialetto è molto meno dello smartphone di ciascuno di noi, che emette e riceve segnali GPS. Chiunque della PA abbia stipulato un contratto per un numero limitato di braccialetti dovrebbe essere reimpiegato in modo più confacente. L’approvvigionamento sarebbe dovuto essere senza limiti di approvvigionamento e con tempi stringenti di consegna, tenendosi un largo margine di riserva, almeno per due motivi. I “clienti” sono da tempo in quantità rilevante e crescente. Inoltre, chi è nella PA può dare testimonianza diretta del contributo della stessa PA all’incremento di tali “clienti”. Sarebbe stata dunque utile la previdenza, se non altro per il proprio possibile diretto interesse. La PA non è in grado invece di esprimere neppure questa lungimiranza.