Riportare in Italia i call center. È l’obiettivo del ministro dello Sviluppo economico che punta a creare così 20 mila posti di lavoro. In questa prospettiva Carlo Calenda è pronto ad incontrare i grandi committenti (Tlc, banche, utility etc.) e fare loro firmare un Protocollo di intesa con cui si impegnano a svolgere il 100% delle attività interne sul territorio nazionale nonché a a garantire che almeno l’80% dei volumi di chiamate dei call center in outsourcing sia effettuato in Italia. E dunque rimpatriato. Al minustro la chiamano strategie di reshoring. Tra gli altri punti chiave l’impegno a non effettuare aste al massimo ribasso, ma adottare il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa per l’assegnazione dei servizi in outsourcing, valorizzando gli aspetti tecnici e qualitativi dell’offerta. Focus anche sul costo del lavoro: per gli affdamenti esterno il riferimento è il decreto legislativo n. 50 del 2016, dunque il minimo contrattuale, ovvero sulla base di accordi con i sindacati. Ci sarebbe poi l’impegno ad applicare la “clausola sociale” e dunque garantire la continuità occupazionale sul territorio nei casi in cui il call center perda la commessa e l’azienda che subentra non sia disposta a mantenere tutti i posti di lavoro.
Il piano convince la Fistel e Uilcom. “C’è la buona volontà del governo di agire in un settore in crisi e chiama in causa i committenti che non devono incidere sui più deboli per sistemare i bilanci”. Postivo anche Anche Salvo Ugliarolo, segretario generale Uilcom. “Dà attenzione a un mondo abbandonato a se stesso negli ultimi 5-6 anni, con carenze di regole e vuoti normativi che hanno compromesso la tenuta occupazionale – evidenzia – Chiediamo però al ministro un coinvolgimento anche delle parti sociali. Perché non riaprire il tavolo permanente sui call center, convocato l’ultima volta nella primavera del 2016?”.
Forti critiche invece dalla Slc. “Non abbiamo ancora visto il testo, ma da quanto capiamo ci sembra un provvedimento inefficace, nonostante abbia il merito di riportare l’attenzione sul settore. Inefficace intanto perché stabilire un tetto del 20% alle delocalizzazioni, non significa solo riportare posti in patria, ma anche incentivare chi non l’ha ancora fatto ad andare all’estero, per un 20% appunto – spiega il segretario nazionale Marco Del Cimmuto – Il Protocollo poi ignora altri interventi urgenti. Ne indichiamo quattro. Primo, superare le gare a minutaggio di conversazione per passare alle gare a corpo. Secondo, inserire l’obbligo di rispondere al cliente in un tempo limitato: un requisito che elimina dal mercato le imprese che si improvvisano call center, senza averne l’organizzazione. Terzo, divieto assoluto di gare in subappalto. Quarto, ammortizzatori sociali ordinari per il settore e non da contrattare di anno in anno nella finanziaria. In conclusione, non vorremmo che il Protocollo risenta del contesto anche politico. Che sia cioè un provvedimento spot, dal carattere vincolante assai basso, affidato alla singola volontà dei committenti e di chiaro stampo elettoralistico”.
E le imprese del settore? Prevale lo scetticismo. “Il Protocollo non è obbligatorio, impegna solo le aziende che desiderano partecipare a questo percorso – osserva anche Paolo Sarzana, presidente Assocontact – Non sono previsti parametri vincolanti o precisi su come erogare i servizi, né obblighi per le aziende ad essere in regola con il Durc e dunque a pagare i contributi ai lavoratori, o ad avere un sistema di certificazione di qualità. Senza paletti chiari e inequivocabili, lo sforzo apprezzabile del ministro rischia di trasformarsi in una moral suasion generica”.