Carnevale Maffè: “Renzi deve tassare l’analogico o lo Spid rischia di fare flop”

L’economista e docente avverte: “La tecnologia ha fatto passi da gigante e il progetto è ormai vecchio ma meglio tardi che mai”

Pubblicato il 23 Ott 2015

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«Una buona idea, un progetto che poteva cambiare realmente i rapporti tra Stato e cittadini ma che rischia di essere in ritardo sui tempi». Carlo Alberto Carnevale Maffè, economista e docente alla Bocconi di Milano, ha più di un dubbio sul successo del Sistema pubblico di identità digitale che dovrebbe vedere la luce a fine anno, quando l’Agid distribuirà i primi codici.

Perché in ritardo sui tempi?

Lo Spid, così come concepito da uno che di innovazione ci capisce ovvero Stefano Quintarelli e da Francesco Caio, che lo ha “adottato” ai tempi in cui era commissario per l’Agenda digitale, poteva certamente cambiare la qualità dei servizi pubblici, dei processi, contribuire a cambiare la cultura analogica che ancora strozza il Paese. Ma tre anni fa, adesso ho qualche perplessità in merito La tecnologia ha fatto passi da gigante. Se qualche anno fa poteva avere un senso distribuire identità digitali “dall’alto” – lo Stato in questo caso – oggi non più.

Per quale motivo?

Oggi è la stessa Rete che gestisce il processo di block chain, in un contesto non monopolista; ed è ancora la Rete che fornisce il livello più alto di certificazione e, quindi, di sicurezza. Risulta, dunque, anacronistico un progetto che non tenga conto di questa evoluzione. Per l’ennesima volta in Italia le resistenza dello Stato ha fatto invecchiare un progetto che poteva contribuire a cambiare il Paese.

Però il governo è intenzionato ad andare avanti comunque. Non si può buttare tutto al macero…

Certo che no. Si vada avanti come il governo sta facendo: meglio tardi che mai. Detto questo, per evitare ulteriori ritardi bisogna operare come un rullo compressore. Senza indugi o tentennamenti.

C’è chi teme che lo Spid faccia la fine della carte di identità elettronica, fallita perché priva di un ecosistema di servizi digitali che rappresentavano il fulcro vero del progetto. Lei che idea si è fatto?

Anche per lo Spid esiste questo rischio, è inutile negarlo. Ed esiste per due ordini di motivi: la resistenza di grossi pezzi di burocrazia all’innovazione – sappiamo che è dentro i processi lunghi e farraginosi che si annidano le clientele, i ritardi – e anche di buona parte dell’utenza che preferisce ancora la carte al digitale.

Perché non si riescono a scardinare questi meccanismi?

Perché lo Stato crede ancora che fare innovazione significhi occuparsi di tecnologie. Invece per fare l’innovazione bisogna fare economia.

Nel caso specifico dell’identità digitale cosa si può fare per farlo funzionare come dovrebbe, ovvero con servizi digitali agganciati?

Ci sono due modi– valgono per lo Spid ma per tutti i progetti chiave del piano Crescita digitale – o lo switch off digitale nella PA, sulla scia di quanto avvenuto per il digitale terrestre, oppure far pagare di più i servizi “di carta”. Nel primo caso lo Stato ha deciso di spegnere il segnale analogico della tv e potrebbe decidere di fare lo stesso nei servizi pubblici e decidere di erogarli il digitale. Una misura forse draconiana, ma che nel caso del digitale terrestre ha funzionato.

L’altra strada?

Si tratta di elaborare misure fiscali per incentivare l’uso del digitale. Il problema è che oggi, paradossalmente, il digitale costa più dell’analogico. Andare allo sportello a pagare una bolletta costa meno che pagarla via web dove ci sono sovrapprezzi; fare la fila ai caselli autostradali costa meno che utilizzare il Telepass che ha un costo di servizio in più. Finché il digitale costerà così tanto non ci sarà nessuno switch off, al di là di tutte le buone intenzioni di questo governo.

Praticamente che si dovrebbe fare?

Una cosa molto semplice: invertire i prezzi relativi dei servizi analogici e digitali, facendo pagare l’analogico per quello che costa realmente a livello di uffici, personale e altro. Sono convinto che in tre giorni – tre giorni non tre anni – anche lo switch off sarà possibile. Ma va cambiata l’impostazione di fondo delle politiche per il digitale.

In che senso?

Bisogna superare la convinzione che il digitale è un mercato, che è uno strumento per efficientare la pubblica amministrazione ma che è un modo di riorganizzare la res pubblica.

Ci spieghi meglio.

Il digitale è nuova Costituente dei patti di convivenza civile e di servizio pubblico, non un mero aggiornamento del software per dipendenti pubblici o “sportello elettronico” per cittadini. È la continuazione della politica con mezzi tecnologici, insomma. E in questo contesto Internet va vista come un sistema operativo economico-sociale tanto quanto lo sono stati fino ad oggi il diritto pubblico e il diritto privato: è strumento efficace di politica economica inclusiva e abilitante alla crescita competitiva, leva per supportare la competitività delle imprese e tutelare il potere di acquisto delle famiglie. Però noto che questo governo si sta muovendo in questa direzione.

In che modo?

La parte più importante della riforma costituzionale, a mio avviso, non è tanto l’abolizione del Senato quanto la norma che assegna allo Stato centrale la competenza esclusiva nel coordinamento informatico dei dati, dei processi e delle relative infrastrutture e piattaforme informatiche. Una norma che permetterà finalmente di riaccentrare e dunque facilitare i processi di standardizzazione che sono basilari per qualunque tipo di programma di innovazione sistemico. A partire dallo Spid.

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