Erano cinque anni che non si scendeva così in basso. Da quando, nel 2008, la crisi ha bruscamente invertito il senso di marcia dell’Ict italiano il calo medio degli investimenti anno su anno si è attestato intorno all’1,8%.
Ma il 2013 con il suo -4,4% – gli investimenti sono calati a 65,2 miliardi – passerà alla storia come uno degli anni peggiori per il mercato. E non è bastata la crescita sostenuta di segmenti “new generation” come il cloud (+32,2%) l’Internet of things (+13,8%), le piattaforme per la gestione dei servizi web (+12,4%) e – sul fronte dispositivi – di smartphone (+43%) e tablet (+65,7%), a compensare il tracollo generale dovuto in particolare alla forte difficoltà dei servizi di rete Tlc che in un solo anno hanno lasciato sul terreno oltre 10 punti percentuali. Questa la fotografia scattata da Assinform nel suo annuale rapporto. “La forte decrescita del mercato digitale rappresenta un serio elemento di preoccupazione: non solo gli investimenti in Ict hanno subìto un decisivo taglio ma si sta sempre più ampliando il gap con le economie avanzate della Ue”, spiega al Corriere delle Comunicazioni Elio Catania, presidente uscente di Assinform e neo numero uno di Confindustria digitale, eletto a seguito della scadenza del mandato di Stefano Parisi. Ammonta a 25 miliardi di investimenti mancati il gap con l’Europa (comunque ancora in decrescita con il -0,9% di media) e recuperare non sarà facile, soprattutto in tempi brevi. E nonostante l’indubitabile legame fra crescita, competitività, produttività e Ict – “un’equazione nota a tutti”, puntualizza Catania – l’Italia non riesce a rimettersi in linea.
Presidente, come stanno le cose?
Il deficit di investimenti in Ict ci ha portato indietro di 12 anni. Fino al 2000 l’Italia investiva tanto quanto le principali economie occidentali e di conseguenza cresceva la produttività. Dopodiché abbiamo cominciato prima a rallentare e poi la rotta si è invertita. La crisi economica ovviamente ha avuto il suo peso, e non è un caso che il 2013 abbia segnato un picco in basso: dopo quattro anni di discesa i budget si sono contratti all’eccesso e, purtroppo, gli investimenti in Ict ne hanno risentito in maniera molto pesante. Ma la colpa non è tutta della crisi.
E di chi è?
La leva tecnologica, tema fondamentale a supporto della crescita, nel nostro Paese non è ancora un fattore prioritario per le leadership. Questo è un dato di fatto. Ormai è noto che investire nel digitale ha un impatto importante sul Pil: negli Usa gli investimenti in Ict hanno contribuito al 50% della crescita del Pil e della produttività e in Europa la media è del 30%. In Italia siamo ancora più indietro. Ma qualche segnale importante di recente c’è stato. È stata messa nero su bianco l’Agenda digitale nazionale e nominato un Commissario. Insomma, si è data grande attenzione al quadro normativo e alla governance. E ci fa molto piacere che il premier Matteo Renzi citi spesso e volentieri la digitalizzazione tra le priorità del Paese. Ma ora è necessario passare alla fase esecutiva con date e, soprattutto, con responsabilità ben definite. Qui, sì, serve un vero e proprio cronoprogramma. Solo così l’Agenda digitale può prendere corpo: dall’agenda ai collaudi, quindi.
Quali sono secondo lei i nodi più difficili da sciogliere?
Il nodo principale è che manca la convinzione profonda di quanto sia cruciale questo passaggio. È necessario capire come le nuove tecnologie vengono innervate all’interno dei processi dell’impresa e della PA, se si vuole davvero assistere alla rivoluzione digitale. Bisogna lavorare sul fronte PA, ma anche e soprattutto Pmi. E bisogna inoltre non sottovalutare il fatto che diversamente dalle tecnologie ante-Internet oggi si va a toccare il “modello” stesso di fare impresa e di amministrare la macchina pubblica. Una trasformazione epocale. Non è facile, lo sappiamo, perché bisogna scardinare vincoli e assetti radicati. Per questo serve una mobilitazione della leadership del Paese,sia pubblica sia privata. Ma ce la possiamo fare.
È ottimista nonostante tutto?
Dobbiamo esserlo. Per almeno tre buone ragioni. Primo: anche da noi si comincia a investire nelle tecnologie digitali più innovative, dal cloud all’internet delle cose. Secondo: l’Italia sta anticipando un megatrend dell’industria Ict continuando a essere leader nel mobile, sia riguardo alla diffusione dei dispositivi, smartphone e ora anche tablet – questi ultimi hanno sforato il tetto dei 6 milioni di pezzi – sia dei servizi. Terzo: ci incoraggiano i casi di eccellenza. Registriamo, ad esempio, importanti risultati nel mondo del fisco, della previdenza, così come in quello dei servizi sanitari di alcune regioni. Aumentano, poi, i casi di aziende, soprattutto medie, che stanno dimostrando grande capacità di trasformarsi, di crescere con l’innovazione. Dietro il successo c’è sempre un uso intensivo delle tecnologie e un leader che ci crede.
La mancata affermazione dell’Ict nel nostro Paese non è anche un po’colpa del comparto?
Quando parlo di mobilitazione includo anche gli attori della filiera Ict. Tutti dobbiamo fare la nostra parte. Innanzitutto siamo fortemente impegnati a sostenere tutte le iniziative dell’Agenda digitale. Ma vogliamo avere anche un approccio molto propositivo e progettuale nei confronti del mercato e della PA. Mi riferisco al tema delle risorse. Al governo, ad esempio, abbiamo proposto di finanziare progetti attraverso partnership pubblico-privato, sia in modalità project financing sia di performance contracting. Insieme a un maggior utilizzo dei fondi strutturali si possono affrontare grandi progetti infrastrutturali riguardanti sanità, giustizia, scuola, turismo, smart city, tutte aree a grande dividendo sociale.