Tutti ci preoccupiamo (un po’) per i dati che lasciamo online con la nostra navigazione Internet, ma i cinesi hanno sicuramente motivi più fondati dei nostri. Perché la navigazione Internet – i siti visitati, i beni acquistati, gli orari della connessione – incide ora anche sul “credit rating” dei cittadini, calcolato tramite una serie di algoritmi sperimentali che alcune aziende del web cinese stanno testando.
Non si tratta solo della solvibilità finanziaria di ogni persona in Cina, e quindi della sua capacità di ottenere credito in un istituto finanziario: il rating si ripercuote anche sull’accesso ai servizi sanitari, all’istruzione, al mondo del lavoro, al “giudizio” dello Stato sul comportamento di ciascun cittadino.
L’idea da cui è partita l’iniziativa di Pechino è di favorire il prestito finanziario per tutti coloro che non possono offrire garanzie e la banca centrale cinese ha emesso lo scorso anno otto licenze per aziende private (tra cui Alibaba, Tencent e Ping An Insurance) per sperimentare nuovi sistemi di valutazione del rischio e della solvibilità degli utenti tra cui anche l’uso dei Big data online. Tuttavia il credit rating si sta rapidamente trasformando in un metro di giudizio del cittadino su vasto raggio, della sua “moralità”, “onestà”, “affidabilità” agli occhi dello Stato. Pechino intende creare un vero database entro il 2020 che aiuti a “innalzare il livello della moralità” della società cinese.
Il progetto è per ora agli albori e potrebbe restare un esercizio teorico, anche se il professor Wang Zhicheng della Guanghua School of Management della Peking University spiega che l’intenzione è di combattere una “crisi dell’etica” e far capire ai cinesi che l’integrità è importante “alzando i costi del comportamento non etico”.
Tuttavia, riconosce Zhicheng, dare una valutazione delle persone in base ai Big data non è operazione banale visti i tanti dati, profili, persino transazioni, falsi di cui è pieno il web cinese. E intanto i critici accusano Pechino di aver trasformato i Big data nel nuovo Big brother, in un micidiale cocktail fatto di alta tecnologia, aziende guidate dal profitto, politica autoritaria e scarse libertà civili.
Per Anne Stevenson-Yang, direttrice di J Capital Research, società di consulenza di Pechino, il sistema rientra nell’obiettivo del presidente Xi Jinping di rafforzare il controllo sulla società e ripristinare quella sorveglianza massiccia che il governo cinese riusciva a esercitare nei decenni passati grazie a sistemi di vigilanza (analogici) e a una tentacolare burocrazia. Nell’era di Internet, e soprattutto degli smartphone, raccogliere dati sulla popolazione cinese non è più possibile con i vecchi strumenti e i Big data in possesso delle web companies nazionali, che hanno 668 milioni di utenti, diventano un valido sostituto dei vecchi registri; non a caso, come riportato dall’agenzia di stampa Xinhua, le amministrazioni locali stanno creando “uffici per il coordinamento dei dati”, in pratica degli enormi database dove i dati raccolti con sistemi tradizionali (come la posta) si uniscono ai dati raccolti da Internet e dai telefoni cellulari (con la complicità delle aziende telecom).
Anche dalle società occidentali, come Facebook o Google, gli utenti (e i regolatori) temono l’istituzione di un subdolo meccanismo di sorveglianza, se non altro per raccogliere dati da sfruttare per il proprio profitto, ma gli analisti fanno notare che il sistema che la Cina sta cercando di costruire è molto più pericoloso perché si innesta in un vuoto legale e in un paese autoritario dove non c’è protezione per la privacy, come commenta anche l’attivista e dissidente cinese Hu Jia sul Financial Times.
Persino alcune delle aziende private cinesi che sono state coinvolte nel sistema del credit rating si sono mostrate perplesse – se non altro perché hanno una reputazione globale da difendere – e, pur se autorizzate a raccogliere dati in massa, affermano che non li useranno perché in Cina non esiste una legge che indichi chiaramente quali dati si possono raccogliere e usare e quali no. Anche in Cina in teoria occorre il consenso dell’utente per raccogliere certi tipi di dati, ma non esiste alcuna definizione legale di “informazione personale” o di “consenso online”.
Il Big brother di Pechino non piace nemmeno a Wang Xiaolei, paladino della rivoluzione Big data in Cina e vice direttore del centro di credit rating della Banca popolare cinese, che gestisce il nuovo sistema del “social rating” dei cittadini: Wang ha dichiarato che in Cina c’è troppa poca protezione per i dati personali e che il rischio è che ogni individuo perda completamente il controllo su dove sono e che cosa viene fatto delle informazioni che lo riguardano.