«Se una società non è innovativa non è sostenibile. E se non è sostenibile, chiude: nel breve periodo, non nel lungo!»: Ernesto Ciorra è drastico. Non a caso il suo ruolo in Enel declina entrambe le facce dell’assioma: head of Innovation and Sustainability.
Perché una convinzione così netta?
Perché si stanno affermando tecnologie pervasive e dirompenti. Capaci di sconvolgere settori estranei all’ambito in cui sono nate. Pensi alle stampanti 3D: basterà caricare il software adatto e premere un bottone per avere l’oggetto voluto a prezzi ridicoli. Impatteranno sulla distribuzione mondiale dei prodotti no-food. Chi avrà questo business?
Me lo dica lei.
Non so, magari un’azienda automobilistica. Il business dei viaggi è ormai in mano a chi non possiede né un albergo né un aereo. Le tecnologie digitali distruggono interi settori e fanno nascere nuovi protagonisti, anche ibridizzandone i ruoli.
Ad esempio?
Il finance. La più grande banca d’Africa è Vodafone. Non vende conti correnti, ma prepagati telefonici per le transazioni dei clienti. La “banca” Vodafone muove masse finanziarie pari a un terzo del Pil del Kenya. Non a caso nella classifica “Fortune 51 change the world list”, Vodafone è al primo posto.
Neanche Enel se la cava male.
Siamo quinti: una notevole soddisfazione. Enel è un esempio di come un settore si ibridizza con altri settori. Porteremo il broadband nelle case italiane. Dovremmo restar fuori dalle tlc perché non sono energia? Sarebbe limitante per noi e per il Paese. A loro volta, gli operatori telefonici propongono servizi di telemedicina. Come fanno anche le compagnie di assicurazione. O sei pronto a cambiare, o rischi di sparire. Kodak, Polaroid, Nokia dovrebbero insegnare molto.
C’è una ricetta per innovare?
Non so se è giusto parlare di “ricette”. Per innovare è necessario coinvolgere chi è fuori dall’azienda. Perché quando stai in un’azienda e conosci il tuo settore, hai paradigmi culturali che limitano la tua visione. Più conosci un settore, più sei limitato. Sembra un paradosso, in realtà è un problema grave. E più sei bravo nel tuo mestiere, più rischi di non vedere il nuovo che avanza.
Cosa significa coinvolgere forze esterne?
Un esempio: la tua innovazione deve coinvolgere le startup, piccole società con passioni, sogni, desideri, fame di cambiare il mondo, di lasciare un segno. Sono menti che devono aiutarci a cambiare noi stessi e la nostra proposizione di offerta, i nostri servizi. E a migliorare il mondo.
Enel e startup. Come si declina il rapporto?
Molti parlano di startup, ma poi gli uffici acquisti non consentono di lavorarci. Chiedono: da quanto esisti? Quanti dipendenti hai? Quanto fatturato fai? Il risultato: “Non puoi lavorare con noi”. Al contrario, Enel ha un processo di accreditamento ad hoc per le startup. Un fast track a supporto dell’innovazione forte. In un anno abbiamo analizzato 1.200 startup, ne abbiano incontrate 350 e con una quarantina portiamo avanti progetti significativi. Vi sono startup che coinvolgiamo nei mercati locali, altre a livello globale.
Qualche risultato?
Uno, emblematico. Ci stiamo strutturando per gestire in proprio, con un MVNO, le nostre sim mobili, ed in questo è fondamentale il supporto di Athonet, una startup di quattro ragazzi italiani incontrati a Copenaghen, premiati al Gsma Mobile World Congress in una gara con i big mondiali delle tlc.
Solo startup?
No, anche le grandi aziende possono aiutare a innovare. Ma bisogna stare con i primi della classe. Ad esempio, noi lavoriamo con Nissan Renault, leader mondiale nell’auto elettrica, o con Apple nel software. Abbiamo circa 100 partnership con aziende del calibro di Toyota, Toshiba, Samsung, Tesla, LG Chemicals. Vogliamo innovare con loro perché da soli non possiamo farlo.
Le imprese italiane hanno la cultura giusta?
Poco. Prevale una concezione del tipo: “Sono il manager, quindi devo gestire io”. Ma se vuoi innovare con i migliori, non devi pensare che decidi tu. Non deve contare la gerarchia, ma le competenze differenziali. L’autorevolezza guida l’innovazione, non l’autorità. Bisogna guardare lontano: spesso non avviene. Un’azienda orafa veneta ha inventato anni fa un sistema di videosorveglianza monitorato da cellulare. Invece di allearsi con Nokia o Apple, come pure gli era e stato proposto, ha preferito fossilizzarsi nel business dell’oro e cedere il brevetto per 10.000 euro. È il limite di molte aziende italiane: non riescono a scalare, ad aprirsi ai mercati internazionali, ad andare fuori dal loro seminato.
E voi come andate fuori dal vostro seminato?
Coinvolgendo sturtup e big player, ma anche lavorando con università e centri di ricerca. Ma bisogna selezionare. Quando sono arrivato, Enel aveva rapporti con 468 università: grande apertura e pervasività, ma zero focalizzazione. Ora lavoriamo con pochi global partner universitari: Mit, Berkeley, Politecnico Milano e Torino, Bocconi, a breve l’Istituto Italiano di Tecnologia. Puntiamo a vere partnership. Ci vediamo ogni tre mesi, incrociamo i nostri bisogni con le loro novità di ricerca. C’è un rapporto “consulenziale”. Puntiamo ad avere un unico account che gestisca l’intera relazione con le università: per farne tramite di veicolazione in tutta Enel delle innovazioni che esse possono apportarci.
Strutturare è importante?
Fondamentale. Se vuoi analizzare 1.200 startup all’anno, non puoi farlo a caso. Diceva Edison che l’1% è inspiration, il 99% è transpiration: sudore Ci vogliono strutture, persone, processi dedicati, kpi ad hoc. Un ossimoro? Apparentemente. In realtà, processi e metodo sono supporti indispensabili a creatività e inventiva.
Come vi siete organizzati?
Con responsabili innovazione a livello di country e di business. E lavorando sulle persone per valorizzarne i talenti. Abbiamo lanciato “Innovation world cup”. 800 dipendenti Enel di tutto il mondo – 160 in Italia – un giorno alla settimana per sei mesi lavorano a coltivare business model alternativi a quello Enel. Sono 18.000 giorni uomo. Se le loro proposte appaiono convincenti, saranno loro stessi a gestirle, indipendentemente dal ruolo gerarchico ricoperto. Puntiamo a trovare business model nuovi incrociando i nostri asset, le nostre capacità, le nostre competenze con i trend e i bisogni dei mercati dove siamo presenti. Senza paura di sbagliare.
Gli errori si pagano.
La paura dell’errore inchioda al non far nulla. Quando si fa qualcosa di nuovo è normale sbagliare. In Enel abbiamo lanciato “My best failure”, un canale video in cui chi ha provato qualcosa di nuovo condivide con gli altri i propri errori. Tutti possono intervenire, valutare e votare gli errori. Chi ha i voti più alti potrà andare a lavorare per due mesi nella funzione che vuole, nel Paese che vuole, nella startup che preferisce. Perché. se hai sbagliato tentando qualcosa di nuovo sei uno che può portare novità.
Quanti si sono fatti coinvolgere?
Circa 6.000 persone. Tanti, ma mi piacerebbe coinvolgere anche tutti gli altri 62.000 dipendenti Enel nel mondo.