Chi avesse voluto una prova della crescente importanza del cloud
computing, quest’estate avrebbe avuto una ghiotta opportunità
seguendo lo scontro tra Hp a Dell per l’acquisizione di 3Par.
Fondata nel 1999 e quotata nel 2007, 3PAR è passata in 3 anni da
38 milioni di dollari di fatturato a 194 milioni offrendo servizi
di storage nel mercato del cloud computing. Sebbene quotasse 9,65$
per azione, le offerte per acquisirla in poche settimane sono
lievitate da 18$ a 33$: un’acquisizione da più di 2 miliardi di
dollari quando l’intero settore ne fattura 5 e nonostante gli
ultimi tre anni in perdita. È stata una gara sconsiderata?
Difficile crederlo dato che entrambi conoscono bene il mercato: Hp,
con una quota di mercato di circa l’11%, è il terzo player al
mondo nel settore dello storage e Dell il quarto (9,4%). Ma 3Par,
che ne controlla appena lo 0,6%, è un attore strategico nel
firmamento del cloud computing.
In sé, il cloud computing non è un concetto così nuovo da
sembrare rivoluzionario. È parente del modello time-sharing degli
anni ’60, dell’application hosting degli anni ’80 come degli
Asp di fine anni ’90. Il suo potenziale però è del tutto
diverso rispetto a quello dei suoi affini perché si ripresenta
offrendo una complessità gestionale enormemente più bassa,
prestazioni notevoli a costi molto bassi e, soprattutto, in un
contesto molto diverso.
Il mondo da allora è profondamente cambiato. La rivoluzione della
“convergenza” sta trasformando l’Ict, i media e i settori
contigui. Convergono le reti di accesso, i servizi, i device, i
mercati e anche i loro attori. Ma soprattutto i numeri sono
diversi. Ci sono quasi 2 miliardi di utenti di Internet al mondo,
un terzo della popolazione mondiale, e di questi alla fine del 2010
la metà sarà in mobilità. È una massa critica sufficiente per
innescare un cambiamento genetico che digitalizza i contenuti e
sposta sempre di più online il baricentro dell’IT. Da questo
punto di vista non stupisce che globalmente il traffico su Internet
cresca del 38% all’anno, quello in mobilità addirittura del 131%
e la domanda di storage del 50%.
Non è però soltanto una questione di numeri. Sta cambiando anche
Internet, un po’ influenzata e un po’ influenzando questi
numeri. Facendo molto discutere, la rivista americana Wired ha
titolato la copertina di agosto “The Web is dead” per intendere
che l’Internet vissuta navigando dal browser sta ormai declinando
e le applicazioni che usano i protocolli di Internet per comunicare
(Skype, Dopbox, Pandora, Evernote e migliaia di altre), la stanno
sostituendo. Il numero medio di applicazioni collegate a Internet
per pc nell’ultimo anno è aumentato del 60%, arrivando a 18. Ma
soprattutto l’esplosione delle applicazioni sono causa ed effetto
del successo di Apple, prima con l’iPhone e il Touch, poi con
l’iPad. Ne sono stati venduti 120 milioni e se ne aggiungono
230.000 al giorno. Una chiave del loro successo sono le 250.000
applicazioni sin qui create: in appena 3 anni ne sono state
scaricate più di 6,5 miliardi, facendo sì che da questa estate
Linux non sia più il terzo sistema operativo per diffusione
online, ma iOS, il sistema operativo di iPhone e iPad. È
l’Internet delle apps che sta cambiando l’editoria ma anche il
modo di comunicare, di accedere alle informazioni e ai servizi. E
questa Internet funziona soprattutto grazie al cloud computing, che
permette tempi di sviluppo molto rapidi, fornisce elevate garanzie
di disponibilità a costi bassi e con un accesso ubiquo da device
diversi. Facebook, Twitter e la quasi totalità dei social network
e delle applicazioni del Web 2.0 sono cloud applications. Se non
fosse stato così, sarebbe stato impossibile che l’anno scorso il
numero di utenti dei social network e il tempo speso usandoli
superasse i rispettivi dati per la posta elettronica, non solo per
ragioni tecniche, ma perché finanziariamente insostenibile dati i
loro modelli di business.
Tutto ciò fa verde il futuro del cloud, non solo perché
intrinsecamente più ecologico, ma anche perché la sua diffusione
sembra dilagante. Se il cotè più innovativo del mercato IT non ha
più dubbi verso il cloud ma richieste, il suo mercato è sempre
più ampio: la Casa Bianca ha lanciato da poco www.apps.gov, un
cloud per le pubbliche amministrazioni; l’esercito americano
l’ha già adottata come architettura preferenziale; in sanità ci
sono le prime applicazioni interamente basate sul cloud; il mondo
della ricerca sta inventando nuovi paradigmi per sfruttarne
l’enorme potenza di calcolo e di archiviazione. Le previsioni
dicono che il solo fatturato dei public cloud services passerà dai
16,5 miliardi di dollari del 2009 a 55,5 miliardi entro il 2014. Al
2009 la sua adozione in Europa è la metà degli Usa (2% contro il
4%) ma le intenzioni di adozione praticamente le riallineano al 20%
del mercato, composto dal 26% delle grandi imprese, dal 19% delle
medie e dal 14% delle piccole, confermando la trasversalità della
sua offerta.
Naturalmente, i cieli del cloud non sono popolati soltanto da
nuvolette rosa. Restano problemi non trascurabili in rapporto alla
sua sicurezza, alla mancanza di standard, alle garanzie delle
performance e della disponibilità, di natura legale. Ma la
semplificazione che porta con sé, ancor più che della riduzione
dei costi, è in sé una ragione sufficiente di adozione per la
maggior parte delle aziende. Resta adesso da capire come, davanti a
servizi cloud sempre più articolati per tipologia di offerta e di
offerenti, le imprese se ne giocheranno l’opportunità, che è
strategica più che tecnica per il potenziale dirompente di
innovazione che può abilitare e che è ancora soltanto in nuce. Ci
sono le premesse perché le imprese italiane vi guardino come
all’occasione per un leapfrogging che permetta di recuperare il
distacco accumulato in passato. È un auspicio, ma la scarsa
crescita della produttività del sistema produttivo italiano ne
avrebbe proprio bisogno.