Addio Amazon, benvenuta Google, Apple ha deciso di spostare buona parte dei suoi carichi di lavoro e informazioni dei suoi clienti contenute nel cloud sui server di Google.
Non è una sorpresa: Apple è fornitore di servizi (con una propria capacità grazie a una serie crescente di datacenter) ma si appoggia anche sui servizi di altri fornitori del mondo del cloud più “robusti” per aumentare la propria capacità. È un gioco complicato: come le matrioske, strati di servizio si annidano uno dentro l’altro. Infatti i servizi cloud di Apple, gigante con un miliardo di apparecchi connessi e centinaia di milioni di utenti che ogni giorno accedono ai loro servizi cloud (dalla sincronizzazione all’archiviazione dei dati e delle preferenze tramite iCloud) in realtà utilizzano in maniera totalmente trasparente un mix di capacità basata sui server di Cupertino e su quelli dei tre più grandi broker di cloud del pianeta, cioè Amazon, Google e Microsoft.
Apple, secondo notizie che arrivano dalla stampa americana, ha deciso però di chiudere buona parte delle sue attività sui server di Amazon AWS e invece di firmare con Google un nuovo contratto dal valore di circa 400–600 milioni di dollari all’anno che sfrutterà la Google Cloud Platform utilizzata dal motore di ricerca della casa di Mountain View e da altri suoi servizi come YouTube.
Il segnale che Apple lancia al mercato è forte: con la crescita del business di Apple, cioè la vendita di telefoni tablet e computer connessi alla rete, aumenta il volume di servizi che devono essere erogati. Il CFO di Apple, Luca Maestri, aveva sottolineato più volte nel corso degli incontri con gli analisti per la presentazione delle trimestrali dell’azienda, che questa voce di spesa sarebbe sistematicamente cresciuta, e di interpretarla come un segnale della “salute” dell’azienda. In realtà, il piano di Tim Cook prevede di riorganizzare e ottimizzare l’utilizzo dei servizi cloud dal punto di vista industriale e (per adesso) non da quello dei consumatori.
Apple ha un buon numero di datacenter che stanno aumentando rapidamente (espansione del datacenter in Oregon e apertura di nuovi centri di calcolo in Irlanda, Danimarca, Nevada e in Arizona), utilizza i servizi Azure di Microsoft e quelli di Google oltre a quelli di Amazon. Adesso non chiude il capitolo Amazon (per il quale si era saputo che spende circa un miliardo di dollari all’anno) ma semplicemente lo ridimensiona, incrementando quello per Google, di cui è già cliente. Non è l’unica azienda a farlo, perché in questi giorni anche Spotify ha spiegato che sta spostando sui server di Google la musica che prima veniva gestita sui server di Amazon: un progetto iniziato quattro anni fa e che prevede anche l’aumento della componente di gestione proprietaria in questo caso da parte della azienda specializzata in streaming di musica.
Apple invece utilizza numerosi player del mondo del cloud (inclusa anche Akamai, partner storico di Apple per il content delivery) semplicemente perché non riesce a far crescere abbastanza velocemente il suo arsenale di server rispetto alla velocità di crescita del consumo da parte degli utenti. Non solo perché questi ultimi comprano più apparecchi, ma anche perché le loro attività si stanno progressivamente spostando sempre più verso il cloud e i suoi servizi. Questa prospettiva strategica di “autarchia digitale” si evince anche dalle dichiarazioni di Tim Cook, che ha più volte dichiarato: “Sono convinto che per noi sia necessario possedere e controllare le tecnologie primarie dietro ai prodotti che realizziamo”. Intanto, a segnare un punto importante per Google, che vede riconosciuta la sua crescente capacità nel campo dei servizi cloud B2B.