PUNTI DI VISTA

De Pasquale: “Per la musica sul cloud la legge è in ritardo”

L’avvocato: “Mancano regole sulle licenze collettive malgrado le raccomandazioni della Ue e delle authority nazionali per favorire lo sviluppo dell’offerta legale”

Pubblicato il 08 Mar 2014

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l business “as a service” ha mutato l’essenza di molti beni di uso quotidiano, come i libri, la musica, l’informazione. Il diritto di proprietà è stato, di fatto, sostituito da un mero diritto di accesso, regolato dai termini di un contratto. Questi beni sono disponibili in ogni momento e luogo ed a prezzi contenuti, ma che cosa resta all’utente quando è ne cessato l’utilizzo?
Come sempre il mondo della musica è un osservatorio interessante per i giuristi. La modalità “as a service” nel business dell’intrattenimento si traduce nella offerta di servizi in modalità streaming. Lo sviluppo di questi servizi è notevole. Nel mercato discografico svedese (patria di Spotify) il 74% del fatturato dell’industria discografica è rappresentato dal settore digitale, di cui lo streaming rappresenta, da solo, il 94% (Dati Ifpi, Digital Music Report 2013). Mentre si parla di una possibile partnership tra Samsung e Deezer (operatore streaming francese), per competere evidentemente nel settore musicale con iTunes, Google Play e Spotify. Vediamo quali sono i riflessi di questo fenomeno nella diversa prospettiva dei consumatori, dell’industria musicale e delle piattaforme.
Il processo di dematerializzazione dell’opera avviato dalle tecnologie digitali si compie definitivamente con lo streaming, ove un flusso di dati trasmessi si sostituisce ad uno spazio in una memoria digitale. Oggetto del contratto in effetti, è l’accesso e non la proprietà di alcun supporto (fisico o digitale) contenente l’opera.

Visto dal lato dell’industria musicale, al crescente ruolo dello streaming si accompagna una marginalizzazione del diritto di riproduzione. In un mondo su cloud l’unica riproduzione che assume rilevanza diventa, infatti, quella (professionale) quella cioè che si concretizza nel caricamento sul server da parte di una piattaforma che effettua la trasmissione streaming. Possono dirsi superate sul piano tecnologico annose questioni come il diritto alla copia privata e l’utilizzo dei Drm (Digital Rights Management): nei servizi streaming l’utente acquista l’accesso ai contenuti in licenza per un periodo limitato di tempo, non ha diritto a nessuna copia di back-up e tutte le sue facoltà si esauriscono al cessare dell’abbonamento. A al proposito, è già sorto un dibattito circa la possibilità di estendere l’equo compenso per copia privata ai servizi di storage su cloud, innanzi al Parlamento Europeo, in Austria ed in Francia.

L’interattività nella fruizione dei contenuti rappresenta l’elemento più innovativo delle piattaforme di servizi cloud-based ed è la caratteristica che rende lo streaming, per il consumatore, sostituto perfetto della “distribuzione” fisica e digitale. Questa equivalenza funzionale dello streaming on demand rispetto al diritto di riproduzione, si riflette in una diversa disciplina rispetto allo streaming lineare che rappresenta una forma di comunicazione al pubblico, sotto il profilo giuridico, alla pari della trasmissione radio-televisiva (webcasting non interattivo). La legge sul diritto d’autore distingue tra comunicazione al pubblico e messa a disposizione del pubblico di fonogrammi (brani musicali registrati), attribuendo solo in questo caso un diritto esclusivo ai titolari. La sfida per gli operatori è però ottenere la licenza di questi diritti. Il mercato è frammentato e una parte rilevante della industria discografica amministra ancora direttamente questi diritti. Così ad oggi non sono disponibili licenze collettive,né a livello comunitario né presso le collecting society nazionali, malgrado le raccomandazioni della Commissione Europea e delle authority nazionali (Agcom) per favorire lo sviluppo dell’offerta legale.

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