SCENARI

Guerra sulle frequenze Tv, rischio boomerang per i broadcaster

L’arrocco delle emittenti nazionali di fronte allo spostamento dalla banda 700Mhz prefigura una battaglia di retroguardia. In vista un bis delle mosse dell’industria discografica

Pubblicato il 19 Mag 2016

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Addio frequenze, benvenuto LTE Brodcast? In Italia si gioca la partita della migrazione dal blocco di canali delle frequenze da 700 MHz e sub 700, che può essere rallentanto ma non fermato. E dietro si profila un secondo tema, quello del controllo delle future torri “low tower, low power” capaci di trasmettere l’LTE Brodcast, cioè programmi televisivi per terminali mobili o convertiti con antenna LTE, che funzioneranno anche dentro casa.

Intanto, il trasloco delle frequenze. Un primo trasloco che però è solo provvisorio: la destinazione finale è un’altra. L’attuale progetto per l’LTE di nuova generazione prevede infatti che i broadcaster televisivi lascino la frequenza dei 700 MHz per andare nel pugno di canali sub-700. Ma, in prospettiva, dovranno traslocare anche da là: nel 2023 infatti l’ITU affronterà anche il dossier dei canali sub-700, che probabilmente passeranno di mano. Entro il 2030 si arriverà a quella che qualche osservatore definisce come la “fine della televisione” perlomeno così come la conosciamo. E ovviamente i broadcaster non ci stanno, puntano i piedi e cercano, se non altro, di guadagnare tempo. Quindici anni sono, da un punto di vista industriale, una vita, ma il trucco sta nel rinviare sempre l’arrivo.

In Italia le implicazioni sono più profonde. I due principali operatori, Rai e Mediaset, tentano di rimandare ilpiù possibile, possibilmente a mai, la liberazione delle 700Mhz e successivo spostamento a sub700: 6 anni per fare una doppia migrazione sono molto, troppo pochi. «Tutti – ha detto in una intervista Gina Nieri, consigliere di amministrazione di Mediaset oltre che capo degli affari istituzionali, legali e delle analisi strategiche del gruppo – si interrogano sul futuro dei broadcaster: chi lo sa cosa succederà? Però tutti sono sicuri che il contenuto video rimarrà centrale. Siccome noi di quello ci interessiamo e lo sappiamo fare, siamo tranquilli». La Nieri punta i piedi su questa trasformazione dai tempi anticipati e la definisce un calice amaro che si è costretti a bere.

Prima il nuovo switch era previsto per il 2030: un futuro remoto per i tempi delle aziende che equivale a dire “mai”. Adesso, è un problema concreto, che tocca direttamente le decisioni degli attuali consigli di amministrazione. I tempi adesso per noi sono diventati molto, troppo serrati. Sullo sfondo c’è in gioco non solo il tema delle frequenze, ma anche l’entrata in scena del digitale terrestre di fase due. Un digitale terrestre potenziato, che richiede però un aggiornamento tecnologico agli utenti. Potrebbe diventare contestuale al doppio cambio di frequenze, che richiedono nuove mappature per le centraline dei televisori (praticamente, il cambio dell’apparecchio) e che portano confusione sotto il sole del Bel Paese. Anche dal punto di vista dei costi.

Quanto potrà costare agli operatori nostrani il passaggio al digitale terrestre 2, che permetterebbe comunque di far stare lo stesso numero di canali in una fetta di spettro più ristretta? E chi ne pagherà i costi? L’Unione europea ha già detto di no.

Se pagasse lo stato italiano, Mediaset sostiene che il guadagno dalle aste per le frequenze agli operatori mobili evaporerebbe quasi del tutto. Altra ipotesi: e se invece si facesse solo un riassegnamento delle rimanenti frequenze, con la conseguenza che qualcuno resta fuori? La domanda diventa: quanto può valere l’indennizzo per la perdita di un multiplex? Non ci sono risposte. A questi temi se ne aggiunte un altro: il passaggio di tecnologia prevede una ristrutturazione del sistema di trasmissione attorno ai 700 MHz, da una tecnologia “high tower, high power” usata da RaiWay ed Ei Towers (cioè Rai e Mediaset), a quella “low tower, low power” delle reti 4G. Per questo la vendita di Inwit, la società delle torri di Telecom Italia, fa gola a molti, tra cui la spagnola Cellnex ma soprattutto Ei Towers.

Quest’ultima potrebbe lavorare per integrare non solo il digitale terrestre ma anche l’LTE Broadcast in tempi molto rapidi sulle torri TIM, mettendo in fuorigioco le torri RaiWay e quindi l’operatore pubblico. Proprio quest’ultimo però ha cercato di sperimentare le nuove tecnologie, assieme a Tim, durante l’Expo di Milano.

In realtà il dato che preoccupa di più gli analisti è che, a fronte di una massiccia emorragia di pubblico del digitale terrestre, gli operatori non stanno lavorando a un’evoluzione della loro offerta capace di entrare in competizione con il digitale vero, cioè Internet. Gli scenari però sono preoccupanti. Rischia che succeda come è avvenuto per la musica: il digitale prima ha trasformato il supporto ma non il modello di business, facendo passare le case discografiche dai dischi in vinile ai cd digitali. Poi è cambiato il modello di business con lo streaming e la musica liquida e sono emersi attori nuovi, da Apple a Spotify.

Se, come sembra, sta accadendo la stessa cosa per la Tv, l’attenzione alle frequenze e agli impianti di trasmissione rischia di essere solo una battaglia di retroguardia. E questo i nostri brodcaster sembrano averlo ben chiaro.

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