l tema delle società Ict in-house è tornato improvvisamente alla ribalta, dopo qualche anno di oblio dopo l’entrata in vigore della Legge Bersani (2006) ed in particolare di quel “famigerato” art. 13 che ne limitava sensibilmente il perimetro di operatività.
Ed è tornato alla ribalta per due ragioni precise: un mercato Ict dedicato al public sector sempre più in affanno dopo l’ennesimo anno di calma piatta – non si investe praticamente più, e la spesa corrente è sottoposta ai tagli più o meno lineari delle varie spending review – e una nuova ondata di impopolarità generalizzata nei confronti delle società partecipate dagli enti della PA.
Assolutamente lodabile la giusta intenzione del governo di sottoporre regioni ed enti locali a una severa dieta dimagrante attraverso un importante piano di privatizzazioni. Immaginare però che una società Ict in-house possa essere venduta esattamente come se fosse un’azienda di trasporto pubblico locale è un clamoroso errore.
Se parliamo delle in-house maggiori (quella dozzina di società possedute dalle Regioni), siamo di fronte a soggetti che svolgono due funzioni precise: il demand e il supply management. Quindi, prima di essere messe sul mercato, si dovrà pensare di scorporare le funzioni (indispensabili) di demand management.
Perché tutte le Regioni che possiedono una Ict in-house non hanno al loro interno chi si occupa di questa funzione.
Altro errore è pensare che tutte le Ict in-house siano uguali: non è così. Abbiamo in-house che fungono quasi esclusivamente da “Agenzia”, occupandosi di governance dell’innovazione e di program management e generando opportunità di business per fornitori che vengono messi in condizione di acquisire competenze spendibili altrove; abbiamo poi in-house che “apparentemente” alimentano un indotto ma in realtà comprano al massimo ribasso giornate/uomo che poi rivendono a prezzi sensibilmente maggiori; abbiamo, infine, qualche “piccola Iri regionale” ancora irresistibilmente attratta dal produrre in casa software limitando al minimo sindacale i rapporti col mercato.
Abbiamo aziende sane, che pagano puntualmente i fornitori, e aziende in difficoltà anche a causa del ritardato pagamento da parte degli enti affidanti.
Abbiamo in-house che possono disporre di qualche elemento di attrattività nei confronti di potenziali acquirenti privati e altre decisamente poco sexy.
Il problema è che è il modello, a non reggere più.
Non regge perché molte delle Regioni che possiedono una in-house si ricordano di possederle soltanto quando arriva il momento di approvarne il bilancio: i budget sono in caduta libera da almeno 5 anni, salvo pochissime e lodevolissime eccezioni.
E guai a parlare di tagli al personale, mica vorremo creare nuovi cortei di manifestanti sotto il Palazzo.
Quindi: di che stiamo parlando?
Che le componenti di produzione ed erogazione di servizi delle in-house possano e debbano essere messe sul mercato è sacrosanto: si vada verso un percorso di “sdoppiamento” e di messa sul mercato (attraverso gare a evidenza pubblica) delle componenti supply side, mantenendo di mano pubblica la componente di governance e program management. Magari riconfigurandola come Agenzia, magari accorpandola in un’entità unica a livello nazionale (dentro l’AgID?), in modo da evitare duplicazioni e sprechi di risorse.
Ma non facciamo finta di dimenticarci il vero problema: ridurre gli stanziamenti per l’Ict è un clamoroso errore che la PA e la Sanità italiana non possono permettersi.
Il termine “patto” sarà anche abusato, ma rende bene l’idea: la PA aumenti i suoi budget e metta in vendita le in-house chiedendo ai compratori di scommettere gran parte dei loro futuri ricavi sull’effettivo raggiungimento di risultati in termini di aumentata efficienza complessiva delle amministrazioni.