Il digitale si fa sempre più largo anche tra gli avvocati, i commercialisti e i consulenti del lavoro. “Mediamente la gestione del cambiamento sta coinvolgendo, oltre alle avanguardie che hanno aperto la strada, una fascia che abbraccia circa il 30% dei professionisti italiani. Questi ritengono le tecnologie digitali un valido alleato e stanno ampliando l’attività alla consulenza che offre più alte marginalità e nuovi servizi di maggior valore per i clienti. Nel contempo, si arricchiscono di nuove competenze: usano di più i social network in chiave business, puntano su una formazione anche su temi meno consueti come le softskill, l’utilizzo dei social network e la comunicazione. Un’evoluzione da professionisti esperti esclusivamente di temi giuridicoeconomici a professionisti manager e imprenditori, che governano la complessità di organizzazioni erogatrici di servizi con un ruolo sempre più esposto a momenti di confronto pubblico”. Lo afferma Claudio Rorato, direttore dell’Osservatorio Professionisti & Innovazione Digitale della School of Management del Politecnico di Milano in occasione della presentazione a Roma della ricerca sull’adozione delle teconologie digitali negli studi professionali, nel corso del convegno “Professionista, oggi apriresti uno Studio?”. All’appuntamento sono intervenuti, tra gli altri, rappresentanti dei Consigli Nazionali di Avvocati, Commercialisti e Consulenti del Lavoro e degli studi vincitori del premio Professionista digitale 2015: Digital & Law Department Studio Legale Lisi di Lecce e Studio Legale Labate di Roma (ex aequo nella categoria Avvocati), Barbieri & Associati Dottori Commercialisti di Bologna (categoria Dottori Commercialisti), Studio Pietro Antonietti Consulenti del Lavoro di Novara (categoria Consulenti del Lavoro).
Dalla ricerca emerge che nel 2015 circa uno studio professionale su tre in Italia si dimostra aperto al cambiamento del proprio ruolo grazie all’uso intensivo delle tecnologie digitali per il business. Questo comporta un ampliamento dell’attività di consulenza e l’avvio di nuovi servizi maggiormente orientati al mercato, oltre che l’arricchimento del proprio profilo con nuove competenze e l’utilizzo intensivo di tecnologie informatiche per migliorare efficienza e produttività.
Nel 2015, emerge dalla ricerca dell’osservatorio del Polimi, la consulenza pesa in media il 27% del totale dell’attività degli studi, ma è destinata ad aumentare di rilevanza. Pur rimanendo prevalente l’attività tradizionale, infatti, nell’ultimo anno è cresciuta per un numero di studi doppio rispetto a quelli che hanno incrementato l’attività tradizionale (29% vs 14%). Anche la consulenza online – che interessa al 51% dei professionisti – contribuirà sempre più a a fornire un contatto con aziende diversamente difficili da raggiungere. Oltre il 40% dei professionisti italiani ha inoltre intenzione di realizzare investimenti in digitalizzazione, ritenuta uno strumento per lo sviluppo dello studio. In generale, le nuove tecnologie sono viste sempre più come un alleato nella ricerca dell’efficienza interna e dell’efficacia verso il mercato di riferimento: complessivamente gli oltre 150mila studi professionali hanno speso più di 1,1 miliardi di euro per l’Ivt, in media 9 mila euro ciascuno, quasi il 50% in più rispetto alle previsioni dichiarate lo scorso anno. Il 54% degli studi professionali presenta una redditività in crescita e il miglioramento delle condizioni ambientali ed economico-finanziarie ha permesso di innescare un circolo virtuoso: le tecnologie consentono di migliorare la produttività e l’efficienza, mentre il miglioramento della redditività permette di aumentare la presenza di tecnologia.
Secondo la ricerca, gli studi professionali italiani si ripartiscono in cinque cluster che mostrano comportamenti e sensibilità differenti nei confronti delle tecnologie. Il 14% sono “avanguardie strutturate”, quelli che per primi hanno creduto nella capacità delle tecnologie di creare valore, con un portafoglio di oltre 60 clienti, più di 60 mila euro di fatturato per addetto, servizi di consulenza superiori alla media, oltre il 28% di budget ICT dedicato a progetti innovativi e interesse alla formazione sui temi ICT. L’11% sono “innovatori caotici”, con interesse e sensibilità verso le tecnologie, ma partiti in ritardo rispetto ai colleghi, per cui le scelte sono effettuate più in chiave tattica che strategica. Il 17% sono “benestanti ricettivi”; studi radicati nei territori con buoni indicatori di performance e dimensionali, che non hanno investito in tecnologia, ma manifestano interesse per la digitalizzazione. Viene poi il 10% di “efficienti miopi”, studi con buoni indicatori di efficienza, ma redditività in calo, in cui il contesto favorevole non stimola interesse verso le tecnologie e che rischiano di diventare inadeguati alla futura domanda di servizi. Infine, il 48% sono “periferici seduti”, il cluster più numeroso, a testimonianza di un grado di alfabetizzazione digitale limitato per un’ampia fetta professionale: sono studi senza buoni indicatori economico-finanziari né reazione al cambiamento, che devono migliorare sia il modello organizzativo, sia quello di business per evitare il rischio emarginazione.