La questione lavoro è per l’Italia, ora più che mai, lo snodo vero per darsi un futuro. Un futuro alle nuove ma anche alle generazioni esistenti, e non solo a quelle più giovani. Non siamo ancora in grado di capire quanto la rivoluzione robotica 4.0 condita di intelligenza artificiale impatterà sul mondo del lavoro in termini di posti persi e guadagnati, ma concentrarsi sui numeri è un esercizio che conta poco in questo momento storico.
Il tema delle competenze digitali e dunque della formazione è uno dei più battuti da qualche tempo a questa parte: se ne parla, se ne discute, è oggetto di convegni e dibattiti, di politiche governative e industriali. E checché se ne dica la macchina della formazione, quella privata ma anche quella pubblica a livello universitario, si è messa ampiamente in moto. Decine i corsi e i master che puntano alla creazione di nuovi mestieri e di specializzazioni su cui si sta concentrando l’offerta di mercato. Il gap lentamente si sanerà, è solo questione di tempo.
C’è però una questione che sta sfuggendo all’attenzione. È quella delle incompetenze digitali. E non è da sottovalutare. Sul carro della formazione e più in generale su quello del digitale stanno salendo in parecchi, forse in troppi. Fioccano gli specialist, gli strategist, i conselour, i coach, gli analyst, gli angels – termini che hanno un significato e un valore preciso e importante ma che spesso sono abusati e utilizzati imnpropriamente. Fioccano le definizioni per indicare competenze mai sentite prima, molte inventate di sana pianta e “vendute” come l’ultima frontiera.
A riprova del fenomeno la miriade di pubblicazioni, guide, manuali e vademecum – figli di consolidate tecniche di marketing basate sulla forza “emozionale” del messaggio – che in poche pagine promettono di rivoluzionare la vita ai creduloni e a coloro, sempre più numerosi, che non hanno la più pallida idea di come ci si costruisca una professionalità e in che cosa consista quel bagaglio di competenze in grado di fare la differenza fra un conoscitore della materia e un cialtrone digitale.
Al netto delle figure tecniche – sviluppatori, softwaristi e conoscitori della dimensione “informatica” –sui quali la scrematura si fa inevitabilemente sul campo, è sulle figure “strategiche” che è necessario un dibattito serio. Il mondo della comunicazione e del marketing, in particolare, si sta popolando di tutta una serie di mesterianti dalle “ambigue” e discutibili conoscenze che promettono ritorni in termini di immagine e popolarità ma che spesso e volentieri non sono in grado di mantenere le promesse. Il fenomeno delle fake news è strettamente connesso a quanto sta accadendo e fa il paio con la caccia ai “follower” sui social network che spesso si traduce nell’acquisto di “pacchetti” di seguaci con il solo scopo di “dopare” il mercato e alterare la concorrenza. La logica della quantità, nel prevalere su quella della qualità, ha il solo scopo di ingannare e di creare falsi miti nei quali stanno inciampando in molti, anche chi non ci si aspetterebbe.
Insomma, è arrivato il momento di una riflessione seria sul tema delle competenze digitali, altrimenti si rischia una “bolla” difficile da gestire. L’incompetenza digitale va stanata e messa al bando. E va fatto ora. È necessaria una scrematura, ripartendo dagli obiettivi strategici e affidandosi a figure che possano davvero aiutare a concretizzarli in termini reali, risultati che si misurano sul fronte dell’operatività, dell’efficienza, del servizio finale e non ultimo delle revenues.
Il digitale non è un gioco e soprattutto non è una “competenza” tout court che si può sganciare dalle capacità manageriali, organizzative, operative. Il digitale è uno “strumento” che bisogna saper maneggiare, non tecnicamente ma strategicamente. I “fuffologi”, da che tempo è tempo, non hanno mai contribuito allo sviluppo dell’economia. Gli “angels” improvvisati e senza curriculum lasciamoli in paradiso e i “guru” alle religioni.