Non sappiamo quali sentimenti provasse il troglodita che disegnava animali sulle pareti della grotta di Altamira, ma sappiamo quali sentimenti provasse Marziale nei confronti di chi proclamava proprie le sue opere o i sentimenti dell’Ariosto quando proponeva al duca Alfonso d’Este di ripartirsi i proventi ricavati dalle multe imposte dal secondo su chi copiava le opere del primo.
Per la legge è sempre stato abbastanza “facile” perseguire l’autore di una copia non autorizzata di un libro. Con l’arrivo della fotocopiatrice però la legge dovette metterci una toppa e nacque la cosiddetta tassa sulle fotocopie. La copia della cassetta audio diventò ancora più facile e così giù un’altra tassa, questa volta sulle cassette vergini. L’MP3 rese la copia dei file audio ancor più facile e lì è finito il mondo che conoscevamo.
L’arrivo del digitale è stata veramente un’occasione mancata perché, invece di sfruttare altre tecnologie digitali, già allora ampiamente disponibili, per risolvere il problema alla radice, si è continuato a mettere pezze su pezze ad una situazione che da decenni faceva già acqua da tutte le parti. L’ultima pezza in arrivo è la nuova direttiva europea sul copyright.
Si possono vestire gli argomenti con la “libertà di internet”, ma è chiaro a me che chi ricava un guadagno esponendo migliaia di snippet di articoli di giornali farebbe bene a mettersi d’accordo con coloro che i giornali li hanno composti. Non so Marziale, ma sono sicuro che Ariosto redivivo sarebbe d’accordo. Quindi non sono contro una nuova direttiva sul copyright.
Dove non mi ritrovo è nell’articolo 13 in cui si richiede un “upload filter” per controllare che qualsiasi oggetto digitale caricato online nell’Unione Europea non violi il copyright di una terza parte. Siccome un obbligo di questo genere può trovare infinite soluzioni tecniche, ognuna a carico di attori diversi, è opportuno che ci mettiamo prima d’accordo sui principi. Poi parliamo di come declinarli.
Per chiarire il mio pensiero racconterò questo aneddoto personale. Quando ero bambino ed ero libero da scuola, aiutavo mia madre in un mercato vicino al nostro paese dove lei gestiva una bancarella. Ovviamente il nostro impegno principale era di vendere, ma non meno importante era l’assicurarci che le merci esposte non finissero “inavvertitamente” nelle tasche di qualcuno. Applicavamo un principio che pomposamente chiamo caveat venditor.
Negli anni ho potuto verificare che questo atteggiamento di prudenza non è solo costume della mia famiglia o dei tempi della mia giovinezza. Ho visitato mercati in diverse parti del mondo, nella parte di acquirente, ed ho notato che i venditori, indipendentemente dalla cultura locale, si comportano tutti nello stesso modo.
Tornando all’articolo 13, che cosa significa in pratica? Che se gestisco un sito web in cui i miei clienti caricano contenuti, ho l’obbligo di verificare che tali contenuti non violino il copyright di qualcuno.
Ma perché dovrei farlo io? Se mia madre ed io abbiamo tenuto d’occhio le nostre merci e milioni di venditori sui mercati in tutte le latitudini e longitudini fanno attenzione alle loro, perché mai i detentori del copyright dovrebbero essere esentati dal compito di controllare le loro merci (ancorché digitali)?
Mia madre ed io cavimus, milioni di persone cavent, i detentori di copyright caveant.
Qualcuno potrebbe rispondere che i detentori di copyright non sono in grado di farlo e, prima di internet e del digitale, questo era forse vero. Nell’era digitale però ci sono tecnologie che consentono ai detentori di copyright di controllare i loro contenuti senza imporre oneri gratuiti alle persone che stanno facendo solo il proprio lavoro.
Mi è chiaro che la tecnologia non è quasi mai da sola una risposta e che in questo caso la tecnologia si debba integrare con la legge. Mi è anche chiaro che tale integrazione non sia una cosa facile, ma non è una buona ragione per continuare a comportarci con la tecnologia come se fossimo il troglodita della grotta di Altamira.