Negli ultimi giorni si è riacceso il dibattito sul diritto d’autore online complice, da un lato, l’audizione in Senato del Presidente dell’Agcom, Corrado Calabrò e, dall’altro, una bozza di provvedimento normativo predisposta dall’Esecutivo che conferirebbe all’Autorità pieni poteri in materia.
Se per un attimo ci si estranea dalle polemiche che, inevitabilmente, alcuni argomenti finiscono per ingenerare nel dibattito internettiano, non si può non riconoscere ad Agcom il merito di aver riportato al centro della scena politica una problematica, quale quella della tutela del diritto d’autore nelle reti di comunicazione elettronica, troppo spesso confinata nella ristretta cerchia degli addetti ai lavori.
Invero, nel corso degli ultimi anni l’opera di studiosi come Lawrence Lessig o James Boyle ha dimostrato quale intrinseco legame sussista tra la regolamentazione giuridica della creatività e il grado di libertà culturale di un popolo.
Una relazione in grado, per certi versi, di evocare un parallelismo con la nascita e l’evoluzione del movimento ambientalista: esattamente come è accaduto per l’inquinamento ambientale, un numero sempre crescente di individui si rende conto del fatto che le modalità con cui la circolazione delle informazioni è regolata influisce sul grado di libertà culturale di una nazione e sulla sua libertà di espressione.
Tuttavia a fronte del mutato contesto tecnologico (“ambientale”, verrebbe da dire, per proseguire nella metafora da ultimo illustrata) la risposta che gli ordinamenti nazionali, ivi incluso quello italiano, hanno saputo apprestare è stata caratterizzata da una rigida conservazione dello status quo e dall’inasprimento dell’apparato sanzionatorio.
In altri termini, non ci si è posti affatto il problema di comprendere se alcune condotte, certamente illecite nel mondo analogico, abbiamo il medesimo grado di disvalore nel mondo digitale, o se, al contrario, alcuni comportamenti abilitati dalle nuove tecnologie rappresentino nuove e “naturali” modalità di fruizione dell’opera, o, finanche, nuovi linguaggi, che non aggrediscono i diritti dell’autore, ma parlano attraverso di essi.
La vicenda che negli ultimi mesi ha visto Agcom al centro della ribalta mediatica non sfugge a tale logica e non (solo) per colpa dell’Autorità: non è certo un’autorità amministrativa il soggetto deputato ad una sintesi dei contrapposti interessi in gioco (da un lato, quello degli autori e dei titolari dei diritti, ad una massimizzazione del profitto, dall’altro, quello della collettività ad un accesso quanto più libero ed aperto alla conoscenza). Il Parlmento che deve farsi carico di una tale incombenza.
Di fronte al mutato scenario, occorre offrire da subito una risposta articolata, ora modellando e adattando principi tradizionali, ora avendo il coraggio dell’innovazione affinché le potenzialità dei nuovi strumenti di comunicazione e informazione non siano imbrigliate da legislazioni proibizioniste e oscurantiste che altro scopo non abbiano se non quello di conservare il presente senza porsi il problema di pensare e progettare il futuro.
Le nuove tecnologie hanno abilitato nuove concezioni del diritto d’autore: non prenderne atto sarebbe come ostinarsi a far indossare un vestito, sia pur di pregevole fattura, cucito per una persona di modesta altezza ad una di altezza elevata. Quest’ultima risulterebbe inevitabilmente goffa. Ed è così che il diritto d’autore appare in questa fase storica: goffo, giacché lontano dalle tecnologie che su quella normativa vanno ad inferire.