Massimo Guastini, copywriter e fondatore di COOkies ADV è il presidente dell’Ars Director Club Italiano.
Come è cambiato il mestiere del copy ai tempi dei social media?
Sono cambiati i tempi e la reattività richiesta. Negli anni ’80 si lavorava con brief che anticipavano di mesi l’uscita di una campagna. Oggi spesso bisogna darsi da soli un brief e capire qual è il momento per lanciare un messaggio. È essenziale poi arrivare primi, essere veloci, reagendo in pochi istanti. Ci sono occasioni che si bruciano in meno di un’ora.
È diventato un mestiere rischioso…
Non se si conoscono a fondo dei valori di una marca. In un certo senso dobbiamo sentirci i suoi “templari”. Prima di ogni azione di comunicazione in Rete bisogna chiedersi sempre se è pertinente e adeguata rispetto ai valori che dobbiamo tutelare e diffondere.
Qual è il cambiamento più grande di questi anni?
Oggi riceviamo feedback immediati e si opera “in vivo”, mentre in passato raccoglievamo solo le reazioni soggettive del committente o le indicazioni “in vitro” delle ricerche. Si è abbreviato moltissimo anche l’intervallo tra parte ideativa e produttiva. In alcuni casi, nei social può addirittura tendere a zero. Inoltre, il punto di partenza di una conversazione pubblicitaria non è più che “cosa dico di questo prodotto”, ma “cosa faccio dire alle persone riguardo a questo prodotto”.
Quali sono i tratti distintivi di un buon copy per Web?
Non credo ci siano differenze rispetto al passato e credo si possano citare due grandi copywriter del secolo scorso. Giancarlo Livraghi nel 1980 affisse nella sua agenzia questa frase: “Quando parlava Eschine, gli Ateniesi dicevano: ‘senti come parla bene’. Quando parlava Demostene, gli Ateniesi dicevano ‘uniamoci contro Filippo’. Noi siamo della scuola di Demostene”. Bill Bernbach sosteneva, invece, che il nostro lavoro consiste nello sconfiggere quel tipo di abilità che mette in luce noi stessi invece del prodotto: semplificare, eliminare ciò che non è pertinente, strappare via le erbacce che soffocano il messaggio del prodotto. Dobbiamo padroneggiare l’italiano e avere il dono della sintesi e una buona dose di resilienza. L’epic fail non è l’unico mostro del copywriter odierno: ne uccide di più l’indifferenza.
Il mercato del lavoro si è ampliato?
Sì. Sempre più aziende cercano qualcuno che si occupi del lato digital e social. Lo cercano per posizioni interne, ma a mio avviso è sempre meglio che il copywriter possa avere un rapporto dialettico con il suo committente, per il bene della marca.
È anche migliorato?
Dipende dai punti di vista: è migliorato perché ormai tutti sono consapevoli della sua inevitabilità. Rimane statico, invece, dal punto di vista del credito che gli si dà: ancora troppi ritengono i social media la serie B dei media.
Da dove partire oggi per questo mestiere?
Dalle buone letture. Le migliori penne che ho conosciuto erano dei lettori compulsivi. Poi serve naturalmente molta pratica di scrittura. Ai giovanissimi consiglio di sperimentare partendo da se stessi, considerandosi il marchio da lanciare. Come palestra basta curare note su Facebook, post su Linkedin o sul proprio blog. Hanno tutti gli elementi per metterci alla prova: la necessità di inventarsi dei contenuti, l’impegno frequente, l’aggiornamento costante, la capacità di capire i trending topic e saper scrivere testi più lunghi di 140 caratteri per poi riassumerli in un titolo o in un tweet.
Conviene specializzarsi in particolari forme di scrittura?
Un buon copy dovrebbe saper scrivere nel modo più ampio che le sue capacità e la sua voglia di imparare e sperimentare gli consentono. L’ideale è saper declinare un insight su più media, compresi i social: una sorta di Esercizi di stile alla Queneau applicati ai mezzi. Alla fine la vera creatività è imparentata di più con la tenacia che con la sregolatezza.
Quale futuro attende i copywriter?
A 55 anni la domanda mi trova necessariamente tiepido, ma a parte gli scherzi le opportunità crescono. Siamo in una fase storica simile a quando entrò nel panorama pubblicitario, come nuovo media, la televisione. Purtroppo, però, proprio nell’era in cui sia Google sia Facebook sostengono la sovranità dei contenuti, i creatori di questi contenuti sono pagati pochissimo: il denaro finisce in rivoli sotterranei chiamati “diritti di negoziazione” che mettono in difficoltà soprattutto i più giovani. Meglio stare alla larga per loro, se non per una formazione iniziale, dalle grandi agenzie. Forse converrà ripartire dai garage e dai sottoscala per offrire soluzioni dirette alla committenza.