«Il disegno di legge presentato in Parlamento lo scorso 28 gennaio rappresenta un grande passo in avanti nel processo di sensibilizzazione e supporto all’adozione del lavoro agile/smart working in Italia». Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, promuove il ddl del governo sullo smart working.
Un provvedimento che l’Italia aspetta da tempo.
Un provvedimento molto atteso che risponde alla necessità di governare i profondi cambiamenti che il mondo del lavoro sta attraversando; cambiamenti che riguardano i modelli di organizzazione e le professionalità emergenti su cui le nuove tecnologie digitali stanno giocando un ruolo sempre più rilevanti.
Cosa la convince di più del testo?
Sono due gli aspetti che il provvedimento mira a regolare, eliminando pericoli distorsivi. Il ddl specifica che la durata del lavoro agile debba essere coerente con la durata massima dell’orario lavorativo. Un elemento importante perché tutela il diritto al riposo e cerca di limitare quel rischio di “troppo lavoro” visto spesso come una controindicazione per lo smart working: in pratica viene messo nero su bianco che il miglioramento di produttività del lavoro, svolto in modalità agile, non dipenda dal fatto che le persone lavorino di più, ma che siano più produttivi grazie a una più efficace organizzazione del lavoro.
Ma non c’è il rischio che un’eccessiva enfasi sugli orari di lavoro renda troppo rigida l’organizzazione del tempo da parte del lavoratore?
Esiste questo rischio. Mi auguro che prevalga il buon senso, in sede di accordo aziendale, nell’applicazione puntuale della norma.
Il secondo aspetto rilevante?
Il fatto che i lavoratori agili debbano ricevere un trattamento economico e normativo non inferiore rispetto ai colleghi che non praticano questa modalità, perché lo smart working non deve essere considerato una forma di compensazione.
Si parla tanto dello scetticismo da parte dei lavoratori, poco propensi a operare in modalità diverse da quelle di stampo fordista, meno delle preparazione da parte delle aziende italiane. Sono pronte alla svolta?
Gli ultimi dati dell’Osservatori Smart Working del Politecnico di Milano denotano un fenomeno in forte crescita: nel 2015 il 17% delle grandi aziende aveva già avviato progetti ad hoc, introducendo in modo strutturato nuovi strumenti digitali, policy organizzative e nuovi layout fisici degli spazi (nel 2014 era l’8% ndr). A queste va aggiunto un 14% che si appresta ad avviare progetti e un altro 17% che li ha già avviati, rivolti però solo a specifiche professionalità o esigenze dei lavoratori. In pratica quasi una grande impresa su due sta andando verso il lavoro agile.
E le Pmi?
Lì la diffusione risulta ancora troppo limitata dato che solo il 5% ha avviato programmi strutturati. Le piccole e medie imprese scontano un gap troppo grande nell’innovazione. In questa situazione è impensabile lasciare a loro l’onere dell’implementazione: alle iniziative delle aziende si devono accompagnare interventi sulle infrastrutture – banda larga e wi-fi nei luoghi pubblici – e misure di semplificazione delle forme contrattuali che agevolino la flessibilità.
Nel provvedimento del governo c’è un esplicito riferimento alla possibilità di applicazione ai dipendenti delle PA. Come giudica la scelta?
L’inclusione dei lavoratori pubblici è coerente con la riforma Madia che aveva già scelto di rafforzare i meccanismi di riorganizzazione del lavoro. Lo smart working nella PA diventa un obiettivo da raggiungere. Niente più vincoli né alibi normativi, ma anzi da parte del legislatore una chiara volontà a spingere l’adozione di un’organizzazione del lavoro che coniughi anche nel pubblico impiego stabilità e tutela nei contratti, con una maggiore flessibilità e responsabilizzazione nella gestione rapporto di lavoro.
Ma la PA italiana, messa davanti alla sfida dell’innovazione, ha troppo spesso dimostrato che le leggi non bastano…
Denigratori del sistema pubblico e pessimisti avranno a che oggi buon gioco nel ricordare come già in passato sono stati fatti proclami ed indicati obiettivi relativi all’adozione di misure di flessibilità e responsabilizzazione nella PA, obiettivi che alla prova dei fatti si sono dimostrati irraggiungibili quando non velleitari. Si pensi al telelavoro: fin dalla riforma Bassanini, il legislatore ha provato a introdurre misure di flessibilità e responsabilizzazione coerenti con la disponibilità della “rete” e delle nuove tecnologie. Gli obiettivi posti erano ambiziosi, i risultati conseguiti sono stati drammaticamente scarsi.
Perché stavolta potrebbe essere diverso?
Per ameno tre buoni motivi. Il primo: lo smart working nella PA è un buon affare per i conti pubblici. L’esempio delle imprese che l’hanno attuato mostra come la sua applicazione consenta di risparmiare costi e aumentare la produttività. I soli risparmi alla riduzione dei costi di mantenimento degli spazi potrebbero portare un risparmio per i conti dello stato stimabile tra 1 e 3 miliardi.
Il secondo: estendendo lo smart working ai lavoratori del pubblico impiego si evita di creare nei loro confronti una forma di discriminazione, riducendo quel clima di sospetto e pregiudizio che sta avvelenando i rapporti tra politica, opinione pubblica e parti sociali. Il terzo: con lo smart working è possibile introdurre anche nella PA il principio della valutazione basata sui risultati e sui livelli di servizio più che sul presenzialismo o sull’adempimento di procedure burocratiche. Questa cultura nuova, molto più dei tornelli e dei controlli ossessivi sulla presenza può scardinare comportamenti scorretti e irresponsabili tristemente diffusi tra manager e dipendenti della PA. Puntando sulla fiducia e la responsabilizzazione si può fermare la logica del pregiudizio e del sospetto ed iniziare a scrivere le regole per chi le vuole seguire e non per chi intende comunque aggirarle.