Crescita digitale, Poggiani: “Questa volta cambiamo il Paese”

Il direttore di Agid: “La nostra forza è la co-progettazione con tutti i livelli di Governo e con la società civile. Vogliamo lavorare in sinergia con Comuni, Regioni e Governo centrale; ma anche con operatori economici, civili e sociali”

Pubblicato il 01 Dic 2014

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Servono 4,5 miliardi di euro per cambiare l’Italia con il Crescita digitale e di questi sono incerti 1,5 miliardi: quelli del Pon e del Fondo Sviluppo e Coesione. “Ma dovrebbe essere possibile ottenere anche questi fondi”. Per un piano che “per la prima volta mette in rete tutti i soggetti interessati al cambiamento, innescando un processo di collaborazione e sinergia”. È con queste carte che Alessandra Poggiani, direttrice dell’Agenzia per l’Italia Digitale, pensa che sia possibile la grande impresa di cambiare il Paese.
Come riassume in una frase il Crescita Digitale?
La trasformazione digitale del Paese è la killer application della crescita economica. E il piano indica la strada per realizzarla.
Perché è così fiduciosa di riuscire in un’impresa sempre fallita finora in Italia?
Perché stiamo sviluppando un processo di collaborazione e co-progettazione con tutti i livelli di Governo e con la società civile. Confidiamo che si riesca a lavorare in modo sinergico con Comuni, Regioni e Governo centrale; ma anche con gli operatori economici, civili e sociali. È questo motivo della consultazione pubblica sul piano.
La diversità del vostro piano dai precedenti è l’azione corale verso gli obiettivi.
Sì: un’azione corale e partecipata. La consultazione non è di forma ma è di sostanza. Il piano specifica chiaramente che c’è bisogno del supporto di tutti per traghettare l’Italia oltre il guado dell’analogico.
Su quali leve contare per questa “azione corale e partecipata”?
Prima di tutto, contando sull‘autorevolezza della squadra. Un consigliere per l’innovazione a Palazzo Chigi, Paolo Barberis, è una discontinuità con il passato e dimostra l’importanza strategica del tema per il Governo. Secondo: fa da garanzia il grande impegno che la Presidenza del Consiglio ha dimostrato nel confronto con le Regioni per la programmazione europea. Terzo: a differenza del passato, ora possiamo contare sul supporto dell’Agenzia della Coesione per monitorare i provvedimenti dell’Agenda. Infine, per la prima volta abbiamo formato una comunità per il digitale: chi si occupa di questi temi, nel Paese, lo sta facendo in rete.
Nel piano, ci sono aspetti già molto dettagliati, come la Sanità digitale, e altri ancora abbozzati, come Italia Login e smart cities. Il prossimo passo?
Confrontarci con l’esito della consultazione per poi scrivere nel dettaglio i vari progetti, compresi quelli ancora in fase progettuale. La Sanità è in fase avanzata perché il lavoro era avviato da tempo con scadenze già fissate nelle norme. Altri programmi devono essere approfonditi meglio nella loro parte esecutiva.
La vera novità del piano è Italia Login. Perché è importante?
Per tre motivi. Primo: per cittadini e imprese perché ne facilita l’interazione con la Pa offrendo un luogo unico di accesso (single sign on). Secondo: è importante per la Pa perché è occasione per riorganizzare i processi e integrare in modo interoperabile i diversi servizi già realizzati, rendendoli più usabili per il cittadino. Troppo spesso in passato abbiamo tradotto in digitale la burocrazie dell’analogico. Terzo: Italia Login vuole essere una cornice che parte dall’interazione cittadini-imprese con l’amministrazione, ma è in realtà un progetto più ampio. È un ripensamento complessivo della presenza dell’Italia sulla rete, partendo dal dominio Italia.it. È il cambio di paradigma suggerito da Barberis, che sta lavorando molto su questo indirizzo.
Uno degli aspetti finora abbozzati nell’Agenda digitale italiana, dal Governo Monti in poi, sono le competenze digitali. Che però voi sembrate voler mettere al centro.
Sì, perché bisogna fare uscire il digitale dal circolo degli addetti ai lavori. Il digitale è già nella vita quotidiana di molti di noi, ma pochi lo capiscono in Italia. Siamo di fronte a una trasformazione industriale necessaria per il Paese. Alcune iniziative come i Digital champion o GoOn italia sono state criticate, eppure servono allo scopo. Tentano di coinvolgere aziende e persone in una discussione che spieghi l’importanza di questa trasformazione, da intendere come condizione necessaria per competere sul mercato. Questo principio vale per tutti. Per le aziende, perché possano sopravvivere; per i giovani ma anche per i meno giovani. Se oggi una persona di 40-50 anni perde il lavoro difficilmente ne troverà un altro se è privo di competenze digitali.
Con quali iniziative volete supportare le competenze digitali, oltre alle due già citate?
Il Governo non può fare tutto, ma può anche promuovere le iniziative che nascono dalle associazioni civili. Se tutto questo funziona, possiamo davvero pensare a uno switch off dell’analogico. Il caso della fatturazione elettronica obbligatoria verso le Pa dimostra che l’innovation by law funziona. E poi può spingere le aziende verso un’adozione piena del digitale. Dobbiamo renderla l’opzione più conveniente e quindi preferibile per utenti e aziende. In questo anche i media hanno molta responsabilità: potrebbero parlare di più di come il digitale ha cambiato la vita di altri Paesi, invece di concentrarsi a narrare il declino dell’industria tradizionale. Non possiamo continuare a vivere in un Paese in cui solo il 4% delle imprese usa l’e-commerce. È drammatico.
L’e-commerce: altro aspetto trascurato dall’Agenda Monti. Come rimediare?
Bisogna fare un grande sforzo, con le associazioni di categoria, per spingere la grande massa di piccoli soggetti in questa direzione. Non basta inventarsi i voucher per le piccole imprese, bisogna anche mandare evangelisti nelle aziende che spieghino loro come questa trasformazione sia un’opportunità e non una minaccia. Deve scattare la contaminazione digitale, tra le aziende, e deve diffondersi anche la voglia di cambiare.
Anche sulle smart city si è fatto poco finora, nonostante i molti proclami.
Questo è un altro degli aspetti acceleratori del piano. Non possiamo ancora pensare le smart city come meri programmi di ricerca, come è avvenuto in passato. Dobbiamo passare a progetti di realizzazione vera, con partnership effettive pubblico-private, dove le parti investano equamente. Servono quindi business case che servano ad esempio per le altre città.
Parliamo di soldi. Il fabbisogno del Crescita è di 4,5 miliardi di euro. Di questi quanti sono già “sicuri”?
Ci sono 1,8 miliardi di euro del Fesr e del Feasr. Più 1,2 miliardi di euro già stanziati. Restano 1,5 miliardi di euro dal Fondo Sviluppo e Coesione e da vari Pon.
E su questi 1,5 miliardi di euro in che misura si può contare?
Nei Pon Metro e Governance sono già previsti fondi per il digitale, bisogna entrare nel dettaglio nei prossimi mesi. Per il Fondo Sviluppo e Coesione bisogna ancora lavorare sulle allocazioni. Però nell’indicare quei 4,5 miliardi di euro complessivi non abbiamo dato un numero a caso. È una stima prudente e ragionata.
Significa che dovrebbe essere possibile ottenere copertura del fabbisogno indicato dal piano?
Sì, dovrebbe essere possibile.

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