I giganti della Silicon Valley fanno fronte comune contro il decreto anti-immigrazione di Donald Trump. La misura imposta dal presidente Usa con l’obiettivo di “proteggere la nazione contro l’ingresso di terroristi stranieri” si appresta a bloccare l’arrivo di cittadini provenienti da sette Paesi a maggioranza musulmana: Siria, Iraq, Iran, Yemen, Somalia, Sudan e Libia. Negli Stati Uniti e in altri Paesi di tutto il mondo sono andate in scena manifestazioni di piazza per esprimere dissenso e sdegno nei confronti del nuovo muro di Donald Trump. E i colossi tecnologici che animano la California non sono stati da meno, anzi tra social network e dimostrazioni pubbliche sono scesi in campo i pezzi grossi.
Da Apple a Microsoft, passando per Google, Tesla e Netflix il fronte si è compattato in poche ore. Questi gruppi impiegano nelle loro fila immigrati e naturalmente si stanno opponendo con forza al disegno di Trump, che secondo loro mette a rischio l’ingresso di nuovi cervelli fondamentali per continuare a crescere e innovare. Il Washington Post racconta di scambi di messaggi, e-mail e telefonate fra gli executive della California hi-tech per mettere in campo iniziative concrete con l’ennesimo “muro” alzato dal neo presidente. Le basi per una pace post campagna elettorale fra il tycoon e i giganti hi-tech, gettate durante il summit dello scorso 12 dicembre, già traballano.
Google ha immediatamente richiamato tutti i suoi dipendenti in missione all’estero che potrebbero essere interessati dal giro di vite sugli ingressi, chiedendo loro di rientrare al più presto negli Usa. Poche ore dopo la firma di Trump al decreto presidenziale il ceo Sundar Pichai ha scritto ai dipendenti: “È doloroso vedere il costo personale di questo ordine esecutivo sui nostri colleghi. Abbiamo sempre reso pubblica la nostra visione in materia di immigrazione e continueremo a farlo”.
Big G ha anche immediatamente creato un fondo di crisi da 2 milioni di dollari, che potranno aumentare fino a 4 milioni con le donazioni dei dipendenti: risorse che saranno destinate a diverse organizzazioni umanitarie tra cui l’American Civil Liberties Union, che riceverà anche due assegni da un milione di euro da AriBnb e dalla rivale di Uber Lyft, l’Immigrant Legal Resource Center, l’International Rescue Committee e l’Unhcr. Il co-founder di Google Sergey Brin ha deciso invece di dare sostegno morale agli immigrati presentando all’aeroporto di San Francisco, uno dei tanti nel panico dopo la firma sul decreto con passeggeri bloccati e compagnie nel panico.
“Apple non esisterebbe senza l’immigrazione – ha scritto il ceo Tim Cook in una lettera ai dipendenti – Ho sentito molti di voi profondamente preoccupati per l’ordine esecutivo emesso per limitare l’immigrazione e condivido le vostre preoccupazioni. Non è una politica che sosteniamo”. Ci sono infatti dipendenti del colosso di Cupertino che sono direttamente colpiti dall’ordine di Trump e il team legale è già al lavoro con loro per capire gli effetti diretti e negativi in arrivo.
Dello stesso tono la nota interna diramata da Travis Kalanick, ceo di Uber: “Questo ordine ha implicazioni molto più ampie e incidono anche su migliaia di automobilisti che usano Uber e provengono dai paesi elencati. Stiamo lavorando all’identificazione dei soggetti colpiti e siamo pronti a sostenerli”. L’Ad di Netflix ha scelto invece Facebook per esprimere la sua opposizione al decreto anti-immigrati: “Le azioni di Trump sono un male per gli impiegati Netflix in tutto il mondo – ha scritto Reed Hastings -. Peggio ancora, queste azioni rendono l’America meno sicura a causa dell’odio che genera. È il momento di unire le forze per i valori americani di libertà e opportunità”.
“Come immigrato e come amministratore delegato ho sperimentato e visto l’impatto positivo che l’immigrazione ha sulla nostra società per il paese e per il mondo – ha commentato Satya Nadella, ceo di Microsoft -. Continueremo a sostenere questa vision e crediamo che le leggi sull’immigrazione possano e debbano proteggere il pubblico senza sacrificare la libertà di espressione o di religione delle persone”.
L’impatto umanitario ed economico dell’ordine esecutivo “è reale e sconvolgente” ha tuonato il numero uno di Twitter Jack Dorsey, mentre secondo la Internet Association “da ciò che rifugiati a immigrati portano negli Usa abbiamo solo che da beneficiare”. Sulla questione si sono espressi con durezza i vertici di altre compagnie come le software company Trimian e Fog Creek e il ceo di Tesla Elon Musk. Musk ha chiesto ai suoi 6,9 milioni di seguaci su Twitter di esprimersi sull’ordine imposto da Trump e suggerire eventuali modifiche. Il numero uno della compagnia automobilistica fa parte del Forum strategico e politico del presidente americano e vuole portare le proposte dei suoi follower nella Casa Bianca. “Molte persone negativamente colpite da questa politica sono forti sostenitori degli Stati Uniti – scrive Musk – e non meritano di essere respinte”.
Non ci sono solo i giganti hi-tech nel gruppo degli anti-Trump. Eclatante ad esempio la decisione del iraniano Asghar Farhadi, che non si presenterà alla cerimonia degli Oscar prevista per il 26 febbraio che potrebbe premiare il suo film Il cliente come miglior opera straniera. Starbucks ha annunciato che assumerà 10mila rifugiati nei prossimi 5 anni. A stretto giro di boa è arrivata anche la condanna di Zeid al-Hussein, alto commissario del Consiglio per i diritti umani dell’Onu, che ha definito il divieto “illegale e meschino”.
È nei tribunali d’America che si sposta ora la battaglia sul bando imposto da Donald Trump Ricorsi, sentenze spesso non in armonia tra di loro, ancora ricorsi fino alla Corte Suprema. Effetti dei dispositivi che si esauriranno in pochi giorni, dibattiti che dureranno anche anni ed anni. Tutto questo con alla base il quesito su quali siano poteri presidenziali in materia di immigrazione. Dall’entrata in vigore dell’ordine esecutivo sono state già emanate quattro sentenze che ne bloccano a vario titolo parte dell’applicazione. Il finale della vicenda è insomma tutto da scrivere. E i giganti del web sono pronti a dare battaglia.
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