Il livello medio di data maturity delle organizzazioni, ovvero la loro capacità di creare valore dai dati, è di 2,6 su una scala di 5, con solo il 3% di queste che raggiunge il livello di maturità più elevato. In tale contesto, il dato relativo all’Italia riflette quello mondiale.
A rivelarlo è un sondaggio globale condotto da YouGov per conto di Hewlett Packard Enterprise (Hpe), dal quale emerge con evidenza come la mancanza di data maturity ostacoli sia il settore privato sia quello pubblico nel raggiungimento di obiettivi chiave come l’aumento delle vendite o il progresso nella sostenibilità ambientale.
In Italia il 13% è al livello di maturità più basso, solo il 4% al top
Il sondaggio si basa su un modello di maturità sviluppato da Hpe, che valuta la capacità di un’organizzazione di creare valore dai dati sulla base di criteri strategici, organizzativi e tecnologici. Il livello di maturità più basso (1) è chiamato “data anarchy”: a questo livello, i pool di dati sono isolati l’uno dall’altro e non vengono analizzati sistematicamente per generare insight o risultati. Il livello più alto (5) è chiamato “data economics”: a questo livello, un’organizzazione sfrutta strategicamente i dati per ottenere risultati, sulla base di un accesso unificato a fonti interne ed esterne che vengono analizzate con sistemi di analytics avanzati e di intelligenza artificiale.
I risultati del sondaggio rivelano che il 14% delle organizzazioni si trova al livello di maturità 1 (data anarchy), il 29% al livello 2 (data reporting), il 37% al livello 3 (data insights), il 17% al livello 4 (data centricity) e solo il 3% è al livello 5 (data economics). In Italia si registrano dati simili: data anarchy 13%, data reporting 31%, data insights 34%, data centricity 17%, data economy 4%.
Aumento delle vendite fra i target più limitati
La mancanza di capacità di gestione e valorizzazione dei dati, a sua volta, limita la capacità delle organizzazioni di raggiungere obiettivi chiave come l’aumento delle vendite (30%), l’innovazione (28%), il miglioramento della customer experience (24%), il miglioramento della sostenibilità ambientale (21%) e l’aumento dell’efficienza interna (21%). Per quanto riguarda l’Italia sono stati rilevati i seguenti dati: aumento delle vendite 34%, innovazione 32%, miglioramento della customer experience 23%, il miglioramento della sostenibilità ambientale 17%, l’aumento dell’efficienza interna 20%.
Colmare i gap strategici, organizzativi e tecnologici
Il sondaggio rivela che solo nel 13% dei casi la data strategy dell’organizzazione è una parte fondamentale della strategia aziendale. Quasi la metà degli intervistati (48% – in Italia 33%) afferma infatti che la propria organizzazione non alloca alcun budget per iniziative relative ai dati o finanzia solo occasionalmente iniziative relative ai dati tramite il budget IT2. Solo il 28% (in Italia il 29%) degli intervistati, inoltre, ha confermato che la propria organizzazione ha un focus strategico su prodotti o servizi data-driven.
Scarso ricorso al Machine learning e pochi data hub
Quasi la metà degli intervistati afferma poi che le proprie organizzazioni non utilizzano metodologie come il machine learning o il deep learning, ma si affidano a fogli di calcolo (29% – in Italia 34%) o business intelligence e report preconfezionati (18% – in Italia 15%) per l’analisi dei dati.
La creazione di valore dai dati richiede anche l’aggregazione di dati o insight provenienti da diverse applicazioni, location o spazi dati esterni. Ad esempio, i dati di telemetria generati dai sensori dei prodotti venduti possono aiutare il reparto R&S di un produttore ad allineare meglio la successiva generazione di prodotti alle esigenze dei clienti. Allo stesso modo, la condivisione tra strutture sanitarie degli insight generati dai dati dei pazienti può far progredire la diagnostica medica.
Una caratteristica legata a un basso livello di data maturity è che non esiste un’architettura globale di dati e analisi: i dati sono isolati in singole applicazioni o posizioni. Questo è il caso del 34% (in Italia 39%) degli intervistati. D’altra parte, solo il 19% (in Italia 14%) ha implementato un data hub o fabric centrale che fornisce accesso unificato ai dati in tempo reale in tutta l’organizzazione e un altro 8% (in Italia 13%) afferma che questo data hub include anche fonti di dati esterne.
Cresce il bisogno di controllo sui dati
Considerato che le fonti di dati sono sempre più distribuite tra cloud ed edge, la maggior parte degli intervistati (62% – in Italia 63%) afferma che è strategicamente importante avere un alto grado di controllo sui propri dati e mezzi per estrarne valore. Più della metà dei rispondenti (52% – in Italia 48%) teme che i soggetti che detengono i monopoli dei dati abbiano un controllo eccessivo sulla loro capacità di creare valore e il 39% (in Italia 26%) sta rivalutando la propria strategia cloud a causa dell’aumento dei costi (42% – in Italia 40%), delle preoccupazioni sulla sicurezza (37% – in Italia 26%), della necessità di un’architettura più flessibile (37% – in Italia 29%) e della carenza di controllo sui propri dati (32% – in Italia 26%).
Necessario un cambiamento nelle strategie di trasformazione digitale
“Esiste un ampio consenso sul fatto che i dati abbiano un enorme potenziale per far progredire il modo in cui viviamo e lavoriamo. Tuttavia, liberare questo potenziale richiede un cambiamento nelle strategie di trasformazione digitale delle organizzazioni”, dichiara Claudio Bassoli, presidente e ceo di Hewlett Packard Enterprise Italia. “È dunque necessario che mettano i dati al centro dei loro percorsi di trasformazione per colmare le lacune attuali, rafforzare la loro autonomia e consentire la collaborazione tra ecosistemi di dati”.