Il data scientist non è un lavoro per donne. Poco pratico, adatto ai nerd dei computer, estremamente competitivo. Lo dicono le donne stesse: 81 su 100 definiscono questa professione come troppo competitiva e il 48% la ritiene di scarso impatto sulla società. Non stupisce che su 55 ragazze iscritte all’università, 35 sceglie un indirizzo scientifico-informatico (materie Stem), 25 lavora effettivamente nel settore scientifico attinente al titolo di laurea, e solo 15 diventa una data scientist. È quanto emerge dal nuovo studio di Boston Consulting Group (Bcg) “What’s Keeping Women Out of Data Science” realizzato su un campione di 9.000 studenti e neo-laureati, under-35, di 10 paesi (Australia, Canada, Cina, Francia, Germania, India, Giappone, Spagna, Stati Uniti, Regno Unito).
L’analisi intende trovare le ragioni del gender gap nella data science. Le principali sono la percezione negativa di questa professione, la paura di una cultura basata sulla competizione più che sulla collaborazione e la scarsa informazione fornita dalle università e dalle aziende sulle caratteristiche di questo lavoro.
Secondo Bcg, la scarsa presenza di data scientist donna rappresenta un rischio per la competitività e la crescita sostenibile delle economie e per la qualità dell’intelligenza artificiale perché inficia l’analisi oggettiva dei dati su cui si basa l’Ai.
Una questione culturale
Le aziende cercano i data scientist e li trovano con difficoltà. La presenza di più donne scienziate dei dati aiuterebbe a colmare questa penuria che non permette alle imprese di avere competenze sufficienti per sfruttare a pieno le potenzialità dell’Ai ed eliminare quegli elementi di “pregiudizio” negli algoritmi grazie alla diversity dei professionisti dei dati.
Le aziende fino ad oggi hanno pubblicizzato il lavoro del data scientist enfatizzando il lato tecnico del lavoro senza affrontare le questioni pratiche e di rilevanza culturale. Secondo Bcg sono fattori che hanno creato disinteresse nelle donne. Il 73% delle donne laureate in scienza dei dati afferma di preferire un lavoro più pratico e più utile alla società (contro il 50% degli uomini); lo afferma anche il 67% di tutte le studenti di materie Stem (contro il 61% degli uomini). Cina, Germania, Uk e Francia hanno il tasso più alto di diffidenza verso il lavoro di data scientist percepito come di scarso impatto.
Sul lato opposto, Australia, Francia e Spagna sono i paesi in cui la popolazione femminile si considera ben informata sulle varie possibilità di carriera nella scienza dei dati. Qui già molte donne sono impiegate come data scientist e fanno da modello e “apripista” per nuove generazioni di scienziate.
Senza le donne l’AI è “monocolore”
“Nonostante la scienza dei dati sia uno dei settori più caldi e in rapida crescita del mercato del lavoro, rimane tuttavia un campo fortemente dominato dagli uomini e poco aperto alle donne“, afferma Laura Alice Villani, Managing Director e Partner di Boston Consulting Group. “Lo dicono i numeri. A livello globale, le donne rappresentano solo il 15% dei professionisti della data science, uno squilibrio di genere che rende monocolore un ambito come quello dell’intelligenza artificiale, dove l’elemento umano, e la diversità che porta con sé, restano fondamentali. Perché l’Ai, che affonda le sue radici proprio nell’uso dei dati, diventi una risorsa preziosa per l’economia, è necessario che sia prima di tutto diffusa tra la pluralità della popolazione. Donne comprese.”
Il trend negativo femminile, secondo Bcg, si interromperà se lo stereotipo lavorativo si adeguerà agli interessi e alle attitudini femminili. Le aziende dovranno modificare le tecniche di recruiting evitando gli hackaton e le gare di coding e abbassare in generale i toni sulla competizione favorendo invece il concetto di collaborazione. Dovrà migliorare anche la comunicazione del valore aggiunto e dell’utilità pratica del lavoro di data scientist: il 45% delle donne si dice poco informata sulle caratteristiche e finalità di questa professione.