PUNTO DI VISTA

Diffamazione, Massimei: “La Cassazione ha dissipato il mistero su Facebook”

L’avvocato analizza la sentenza della Suprema Corte: “Nei prossimi mesi ci saranno ulteriori sviluppi giurisprudenziali per il reato via social network”

Pubblicato il 28 Apr 2014

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La tutela della reputazione in rete corre ormai sul filo dei social network. Si rincorrono infatti negli ultimi mesi le notizie relative a provvedimenti giudiziali in tema di diffamazione a mezzo internet che sempre più hanno ad oggetto fattispecie che proprio dalla comunicazione ed interazione tra naviganti all’interno dei siti di social networking traggono spunto ed origine.

A sancire questa natura “virale” (per utilizzare, per l’appunto, un termine divenuto particolarmente caro alla rete) dell’ambiente “social” è ora giunta – dopo le tante Corti di merito pronunciatesi in materia – la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza della Prima Sezione Penale n. 12761/14, cui peraltro i media hanno dato larga eco.

In particolare con la citata pronuncia la Cassazione ha finalmente fatto chiarezza in merito ad alcune questioni su cui la giurisprudenza di merito si era mostrata sin qui assai poco sicura, lasciandosi forse in una certa misura “disorientare” dalle peculiarità della comunicazione nell’ambiente “social” rispetto alla realtà generalizzata della rete già variamente e diffusamente affrontata in tema di testate telematiche prima e di blog, forum e portali di aggregazione e condivisione tradizionali poi.

Così, ad esempio, alcune Corti avevano ritenuto, talvolta, di poter escludere tout court la diffamazione – per mancanza dell’elemento essenziale della “comunicazione con più persone” richiesto dall’art. 595 c.p. – per via dell’ambiente virtualmente “chiuso” in cui avviene la comunicazione e l’interazione all’interno dei social network rispetto al “mare magnum” di internet: in tal senso, ad esempio, si era espresso il Tribunale di Gela, secondo cui “attraverso Facebook (e social network analoghi) si attua una conversazione virtuale privata con destinatari selezionati”, per cui la comunicazione non può dirsi “particolarmente diffusiva e pubblica”, in virtù del fatto che per accedere alle pagine di un profilo Facebook è necessario il consenso del titolare del profilo che autorizza, di volta in volta, solo la ristretta cerchia di individui che desidera selezionare (sic, ad es., Trib. Gela, 23.11.2011, n. 550).

In altre occasioni si erano invece sollevati dubbi – proprio in funzione delle possibilità che i social offrono di poter restringere, ab origine o in occasione dei singoli post e commenti, la cerchia dei potenziali destinatari delle comunicazioni (e dunque dei soggetti anche messi nelle condizioni di fruire dei messaggi e/o di subirne gli eventuali effetti pregiudizievoli) – circa la possibilità di qualificare il social network come “altro mezzo di pubblicità” ai fini dell’applicazione della aggravante di cui all’art. 595 comma 3 c.p. usualmente applicata alla diffamazione a mezzo stampa o a mezzo internet (inteso in senso lato): di lì l’attenzione quasi “morbosa” che le Corti di merito di volta in volta riservavano, nelle rispettive analisi in fatto, a circostanze quali il numero di “amici” aventi accesso ad un dato profilo, alle specifiche impostazioni privacy più o meno restrittive ad esso inerenti, all’eventuale utilizzo di “tag” che consentivano di riferire il messaggio asseritamente diffamatorio al preteso soggetto leso o in ogni caso al messaggio di uscita dalla sfera di disponibilità e controllo del titolare del profilo risultando così liberamente e pubblicamente fruibile erga omnes, al numero di visualizzazioni o di commenti raccolti, e via di seguito (cfr. a titolo esemplificativo: Trib. Monza, 2.3.2010, n. 770; Trib. Grosseto, 24.5.2012, n. 97; Trib. Livorno, Uff. GIP, 2.10.2012, n. 38912).

Orbene con la sentenza n. 12761/14 la Cassazione ha in sostanza ricondotto le ipotesi di diffamazione a mezzo social network entro i confini della fattispecie generale della diffamazione aggravata perpetrata mediante l’utilizzo del mezzo di pubblicità, sancendo in primo luogo che la pubblicazione di una frase diffamatoria su di un profilo Facebook “rende la stessa accessibile ad una moltitudine indeterminata di soggetti con la sola registrazione al social network ed, anche per le notizie riservate agli «amici», ad una cerchia ampia di soggetti”, che pertanto postare un simile messaggio sul proprio profilo integra il dolo prescritto dall’art. 595 c.p., il quale postula la semplice “volontà che la frase giunga a conoscenza di più persone, anche soltanto due”, il che rende irrilevante “la circostanza che in concreto la frase sia stata letta soltanto da una persona”. Per tali ragioni ha concluso, dunque, la Suprema Corte che non può essere negata l’applicazione della aggravante ex art. 595 comma 3 c.p.

Sotto questo profilo con questa pronuncia la Cassazione sembra aver decretato che l’approccio da seguire in materia di social è quello già indicato dalla stessa Corte in tema di blog, poiché anche il social network può definirsi “uno spazio web attorno al quale, comunque, si aggregano navigatori che condividono interessi comuni, con la conseguente diffusività dei contenuti del blog stesso” (sic, Cass. pen., sez. V, 25.7.2013, n 32444).

Dopo aver ricondotto il caso entro tali confini, la Corte ha fatto applicazione dei principi già consolidati in materia di diffamazione a mezzo stampa per cui è sufficiente che, benché implicita, risulti sufficientemente univoca alla cerchia dei destinatari la riferibilità del messaggio diffamatorio al soggetto leso, non essendo a tal fine necessaria l’espressa indicazione del nome dello stesso.

Alla luce di quanto sopra rilevato, la pronuncia in commento rappresenta un approdo certamente auspicato, avendo la Corte quantomeno tentato di dissipare l’iniziale “aura” di mistero e novità associata al nuovo strumento di Facebook ed alle relative funzionalità.

Ritengo plausibile attendersi nei prossimi mesi ulteriori sviluppi giurisprudenziali relativi alla tutela della reputazione a mezzo social media, dal momento che sono attesi all’esame della Suprema Corte e, ancor prima, delle Corti di merito, temi quali, ad esempio, la configurabilità del concorso nel reato di diffamazione (con i conseguenti riflessi civilistici) in relazione alle ipotesi nelle quali soggetti terzi possano accrescere la portata lesiva di messaggi diffamatori con commenti e “like”, nonchè, al di fuori dell’ambiente Facebook, le peculiarità, come mezzo di comunicazione, di Twitter, connotato come noto da ulteriori specificità in relazione alle modalità di pubblicazione, ripubblicazione e condivisione dei contenuti.

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