Quanti tra di noi hanno rivolto ad altri o hanno risposto direttamente alla domanda “quanto sei social?”. Molto probabilmente tutti o quasi. È la dimostrazione che i social network, la loro consultazione e la pubblicazione di post sugli stessi sono parte integrante della nostra vita “reale”.
La nostra rete sociale sembra sia costituita da “amicizie virtuali”, like, commenti e continui aggiornamenti dello status o di qualsiasi altra informazione della vita personale, ma anche di quella degli altri.
È chiaro ai più che attraverso i social network è permesso “conoscere” fatti, stati emotivi, vicende personali della cosiddetta “cerchia di amici” di cui è composto il profilo personale di Facebook o di Instagram, ad esempio, ma è sempre poco chiaro a chi è “social” quali siano le conseguenze di determinati comportamenti, che potrebbero portare anche alla commissione di illeciti penali.
L’evolversi della coscienza “social”, la rapidità diffusoria delle informazioni attraverso Internet, l’impossibilità o comunque la difficoltà di controllare la provenienza e l’autorevolezza delle informazioni hanno posto il problema di individuare il ruolo dell’informazione e della liceità della stessa, così come il rapporto tra ciò che è considerato libertà e spontaneità della informazione e ciò che invece sfocia inevitabilmente nel reato di diffamazione.
A tale riflessione, però, si deve aggiungere un ulteriore elemento, che non può essere trascurato quando si parla di informazione e di manifestazione del pensiero, e cioè la distinzione tra colui che comunica un’informazione a livello professionale, veicolata tramite una testata giornalistica online, e chi, invece, comunica determinate informazioni attraverso mezzi di diffusione del pensiero, quali i social network, che altro non sono se non “un servizio di rete sociale, basato su una piattaforma software scritta in vari linguaggi di programmazione, che offre servizi di messaggistica privata ed instaura una trama di relazioni tra più persone all’interno dello stesso sistema” (Corte di Cassazione, sez. V penale, sentenza n. 4873/2017).
Diffamazione sui social: attenzione a postare commenti offensivi su facebook
Difatti, contrariamente a quanto avviene attraverso i media tradizionali (cartacei o digitali), in Internet la diffusione delle notizie, dei commenti e delle più disparate opinioni di coloro che utilizzano la rete non è (almeno ad oggi) oggetto di preventiva analisi e il margine di cadere, pertanto, nella commissione del reato di diffamazione è proporzionalmente più alto rispetto a quanto avvenga invece nei media tradizionali.
Veniamo perciò all’individuazione del delitto di diffamazione, previsto all’art. 595 del codice penale: “chiunque […] comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1032 Euro”. Ai commi 2 e 3 del medesimo articolo si sottolinea che se l’offesa consiste nell’attribuzione di un determinato fatto, la pena aumenta, e se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516 (diffamazione aggravata).
Gli elementi che distinguono il reato di diffamazione sono pertanto la comunicazione con più persone, intesa come pluralità di soggetti che siano in grado di percepire l’offesa e di comprenderne il significato, e poi l’offesa alla reputazione del soggetto che si vuole colpire, in maniera cosciente e consapevole. Una volta individuata la condotta delittuosa, l’articolo fa cenno a elementi aggravanti e in particolar modo richiama il mezzo con cui l’offesa della reputazione altrui può essere commessa, il mezzo stampa o altro mezzo di pubblicità.
La giurisprudenza, almeno inizialmente, non aveva ravvisato la commissione del reato di diffamazione nell’ambito dei social network per la mancata individuazione degli elementi sopra richiamati, come ad esempio l’elemento della “comunicazione con più persone”, escludendo la diffamazione in quanto il profilo privato di chi diffondeva il messaggio veniva identificato come ambiente virtuale “chiuso” e quindi privo degli elementi della “diffusività” e della “pubblicità”. E sono infatti gli elementi della diffusione e della pubblicità attraverso il social network ad essere stati riscontrati nella sentenza della Corte di Cassazione n. 16712/2014, che ha ricondotto la fattispecie della diffamazione aggravata attraverso l’utilizzo del mezzo di pubblicità all’ipotesi di diffamazione attraverso il social network. Ha ribadito infatti la Corte di Cassazione che la pubblicazione di una frase offensiva su un social network rende la stessa accessibile ad una moltitudine indeterminata di soggetti con la sola registrazione al social network e pertanto è indubbio che uno degli elementi essenziali della diffamazione venga riscontrato.
Diffamazione su facebook, cosa dice la legge?
Il carattere quindi della diffusività del “profilo”, della “bacheca” e di ogni altro spazio presente sui social network è oramai stato assodato dalla più recenti sentenze della Suprema Corte, che si sono succedute negli ultimi anni e che hanno rilevato quanto i social network siano mezzi idonei per realizzare la pubblicizzazione e la circolazione, tra un numero indeterminato di soggetti, di commenti, opinioni e informazioni, che, se offensivi, comportano l’integrazione del reato di diffamazione, aggravata dall’utilizzo di un mezzo di pubblicità.
Diffamazione a mezzo facebook: alcune sentenze
E’ quanto è stato affermato dalla recente sentenza dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 50/2017), secondo cui “la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 terzo comma del codice penale, poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone; l’aggravante dell’uso di un mezzo di pubblicità, nel reato di diffamazione, trova, infatti, la sua ratio nell’idoneità del mezzo utilizzato a coinvolgere e raggiungere una vasta platea di soggetti, ampliando – e aggravando – in tal modo la capacità diffusiva del messaggio lesivo della reputazione della persona offesa, come si verifica ordinariamente attraverso le bacheche del social network, destinate per comune esperienza ad essere consultate da un numero potenzialmente indeterminato di persone, secondo la logica e la funzione propria dello strumento di comunicazione e condivisione telematica”.
Diffamazione per offese su facebook, cosa si rischia e come difendersi
La sopra richiamata sentenza della Cassazione sottolinea ancora una volta l’orientamento costante della Suprema Corte in merito alla valutazione del social network come mezzo potenziale, idoneo e capace per la consumazione del reato di diffamazione. Non vi è dubbio infatti, che a differenza del “mezzo stampa”, la giurisprudenza abbia ampliato il concetto di “qualsiasi mezzo di pubblicità”, richiamato nel comma 3 dell’art. 595 del codice penale, includendo la diffusione a mezzo fax, attraverso pubblico comizio, o a mezzo posta elettronica, tra gli strumenti atti a trasmettere dati e informazioni a un numero ampio, o anche indeterminato, di soggetti.
Oggi pertanto siamo attori e spettatori di un sistema che ci permette di inviare e di ricevere molteplici e differenti informazioni, grazie anche alla facilità e rapidità di accesso alla rete. I social network sono pertanto diventati l’ambiente virtuale più frequentato al mondo, dove ogni giorno milioni di persone interagiscono con gli altri, scambiandosi opinioni, foto, commenti e informazioni. L’azione più semplice di tutte, cioè l’esprimere un proprio pensiero o una propria opinione, racchiude però insidie e conseguenze, anche di natura penale, che a volte vengono ignorate e che invece il buon senso e la corretta utilizzazione dei social network dovrebbero aiutarci a conoscere.
Articolo originariamente pubblicato il 10 Set 2021