”Alleanza per l’Europa digitale” fra il Regno Unito e l’Italia? Può suonare come una battuta o un impegno prematuro visto che – presumibilmente a metà dell’anno prossimo – dovrebbe tenersi in Gran Bretagna il referendum sulla permanenza inglese nell’Unione Europea annunciato dal premier David Cameron (nella foto).
Si tratta di una consultazione dagli esiti molto incerti. Tra le conseguenze della vittoria degli eurocontrari e il conseguente allargamento della distanza politica fra le due sponde del Canale della Manica non può che esservi anche una perdita della capacità di influenza inglese sulle politiche dell’Unione, quelle digitali incluse.
Referendum a parte, nella discussione in corso a Bruxelles sulla realizzazione del digital single market sta emergendo una singolare convergenza di posizioni fra il governo inglese e quello italiano. Certo, non mancano differenziazioni importanti come l’esigenza italiana di tutelare le nostre specifiche eccellenze culturali (l’exception culturelle, direbbero in Francia) quando si tratta di tutela del diritto d’autore oppure l’idea di imporre una tassazione ad hoc sulle transazioni elettroniche, minacciata di recente dal presidente del Consiglio Matteo Renzi, sia pure come ipotesi di ultima istanza qualora l’Europa non riesca ad arrivare ad una sintesi comune in tema di imposizione sul commercio elettronico. Ipotesi che, solo a pensarle, fanno venire i brividi a Londra e dintorni.
In particolare, la ventilata tassazione delle web company viene vista come una discriminazione da evitare assolutamente, anche perché si teme che possa frenare lo sviluppo del commercio elettronico e la diffusione dei servizi delle aziende innovative.
Piuttosto, in quel di Londra si preferisce parlare di “diverted profit tax”, un’imposizione valida per tutti i settori anche se, va detto, sono i big player della Internet economy e dintorni ad essere particolarmente esperti nello slalom fiscale, assolutamente legale quanto irritante per chi le tasse deve raccogliere.
Una posizione, quella inglese, cui non è detto che l’Italia non possa avvicinarsi qualora a Bruxelles si riesca a raggiungere una quadratura del cerchio che armonizzi i criteri di imposizione fiscale per le aziende che giocano sullo scacchiere delle transazioni infragruppo fra Stati, non solo nel digitale ma anche nei più tradizionali scambi di beni e servizi. Ma va anche detto che, a complicare le cose, in Gran Bretagna si insiste che l’Iva vada riscossa nel Paese dove l’impresa è basata, mentre da noi sembra prevalere la tesi di privilegiare l’imposizione fiscale nel Paese dove il servizio o il prodotto online vengono comprati.
Eppure, Italia e Gran Bretagna in tema di politiche digitali condividono molte più cose di quanto non le divisa. Basti pensare ad una tematica calda come quella del roaming che ha visto le posizioni dei due governi allineati sull’obiettivo di una abolizione il più rapida possibile della “tassa sui viaggi” pagata dai consumatori che si spostano in Paesi diversi da quello in cui hanno sottoscritto l’abbonamento telefonico. Tema su cui a Londra si è molto sensibili.
Ma altrettanto si può dire anche per l’Italia, in particolare per voce del sottosegretario alle comunicazioni Antonello Giacomelli che dell’abolizione del roaming ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia sin di tempi in cui l’Italia si è trovata ad avere la Presidenza semestrale dell’Unione. Anche se, va detto, i risultati non sono stati all’altezza delle aspettative va causa della cacofonia dell’Europa in materia, rimediata con un compromesso che ha lasciato molti delusi.
Più in generale, al di là delle singole opzioni, è la filosofia con cui affrontano il tema del digital single market che unisce Italia e Gran Bretagna. Entrambi i Paesi sono fortemente convinti che l’Europa debba mettere da parte approcci ed egoismi di tipo nazionalistico per spingere sull’acceleratore di un mercato digitale che superi i tanti “geo-blocking” che ancora frammentano il vecchio continente.
Si tratta di un mercato potenziale di 500 milioni di consumatori ma anche di milioni di aziende piccole e medie che dal superamento delle barriere digitali nazionali hanno molto da guadagnare. Non solo le start-up che vogliono diventare grandi allargando la platea dei clienti potenziali, ma se ne avvantaggerebbero anche le industrie più tradizionali, chiamate alla svolta digitale che passa sotto il nome di industria 4.0.
Italia e Gran Bretagna hanno una visione assolutamente comune: il mercato unico digitale è “una priorità importante”. Ciò non significa che gli accenti sulle singole tematiche non abbiano sfumature diverse. Ad esempio, in Italia si pone particolare attenzione alle infrastrutture digitali e alla diffusione dell’uso di Internet e dei servizi della Rete. Temi su cui la Gran Bretagna si accalora di meno, se non altro perché banda ultralarga e servizi digitali sono assai più diffusi che da noi.
Eppure, a leggere il documento ufficiale che sintetizza la posizione britannica in tema di digital single market si trovano molte analogie con l’orientamento italiano. E non soltanto per l’enfasi con cui si insiste affinché “l’Ue compia ambiziosi passi avanti per la creazione di un mercato aperto e flessibile, con un quadro normativo che rifletta la natura dinamica dell’economia digitale”.
Parole che potrebbero essere sottoscritte tali e quali dal governo italiano, compresi gli auspici che a un’impresa basti espletare gli obblighi amministrativi in un solo Paese per operare in tutta Europa o che i consumatori possano guardarsi in streaming le partite cui sono abbonati indipendentemente da dove si trovino.
Assonanza di vedute fra i due Paesi si scoprono anche andando a vedere le singole proposte inglesi per rendere l’Ue “a misura di consumatore digitale europeo”: eliminazione del geo-blocking, trasparenza dei prezzi, controllo dei dati personali, fine dei costi di roaming, tutti i servizi pubblici online. Ed emergono anche nelle idee inglesi volte a favorire “l’innovazione digitale delle imprese attraverso la competizione”: una sola registrazione valida per tutti i Paesi, web aperto e meno regolato per far emergere modelli di business nuovi e innovativi, coerenza dei regimi fiscali con aliquote “giuste”, un’Iva che incoraggi l’imprenditorialità, in particolare delle Pmi online, supporto alla crescita delle start-up liberandole dalle normative in eccesso, interoperabilità e mercato continentale delle tecnologie, fruibilità degli open data.
Italia e Gran Bretagna schierate sullo stesso fronte nella battaglia per il digital single market in corso a Bruxelles? Su molte cose sì. Con l’incognita di cosa risponderanno i cittadini inglesi al quesito che Cameron porrà loro il prossimo anno.