L’imposta sui ‘imposta sui servizi digitali’ – meglio nota come ‘web tax’ – non è altro che la declinazione italiana di un dibattito avviato gia’ sul finire dello scorso millennio e che ha visto un rinnovato attivismo dei legislatori nazionali e comunitari negli ultimi anni.
Il prossimo banco di prova a livello internazionale sarà già il prossimo 17 ottobre quando a Washington si riuniranno i Ministri delle Finanze per il G20: in quella sede sarà presentata la proposta dell’Oecd (Osce). “Il processo multilaterale è in corso” e il G7 appena conclusosi a Biarritz ha impresso la giusta spinta politica, ha recentemente affermato Pascal Saint-Amans, a capo del Centre for Tax Policy and Administration dell’Oecd. Il nuovo governo avrà l’opportunità e l’onere di contribuire con una posizione chiara, che possa fare dell’Italia un attore chiave nelle discussioni globali sulla digital tax così da fare anche chiarezza sulle implicazioni che ciò potrebbe avere a livello nazionale sull’eventuale implementazione o abbandono della web tax.
Il naufragio della proposta Europea: verso una soluzione globale?
“Attualmente i decisori politici stentano a trovare soluzioni in grado di assicurare una tassazione equa ed efficace che stia al passo con l’accelerazione della trasformazione digitale dell’economia, considerato che le norme vigenti sulla tassazione delle imprese sono obsolete e non tengono conto di questa evoluzione”: sintetizzava cosi’ la questione il preambolo della proposta di Direttiva europea datata marzo 2018 e caduta nel novero delle risposte ipotetiche alla tassazione dei ‘colossi del web’ dopo la bocciatura ricevuta dagli Stati membri in sede di Consiglio lo scorso 12 marzo.
Il mancato accordo a livello europeo e’ risultato in un’intensificazione delle iniziative nazionali per regolare la tassazione dei servizi digitali e, nell’ottica di una soluzione di respiro globale, ha spostato l’arena del dibattito politico e tecnico da Bruxelles al G7 e all’Oecd (Ocse). Le osservazioni sul contesto nazionale rese da Elio Catania, ex Presidente di Confindustria digitale, nel dicembre 2018 restano valide anche per il panorama europeo, con la recente approvazione di una tassazione dei servizi digitali in Francia e con l’approvazione di un progetto di legge analogo nel Regno Unito (il cui esito e’ legato a doppio filo alle piu’ ampie sfide politiche ed economiche che l’esecutivo guidato da Boris Johnson dovra’ affrontare nei prossimi mesi).
‘Lanciarsi in fughe in avanti’, sosteneva Catania, e’ inefficace e controproducente e soltanto un coordinamento internazionale delle politiche tributarie e regolamentari puo’ arginare l’”ipertrofica asimmetria tra giurisdizioni fiscali nazionali all’interno dell’Ue [e] evitare fenomeni di doppia imposizione”.
Ancora Catania, dalle pagine del Sole24Ore, sottolineava come “partecipare alla costruzione delle misure che saranno effettivamente messe in campo è, quindi, una questione strategica per il nostro Paese, che non può essere confinata al lavoro dei tecnici”. Senza addentrarsi nelle tecnicalita’ e nelle mancate disposizioni attuative della tassazione dei servizi digitali in Italia, di seguito due spunti sulla posta in gioco per l’Italia alla luce dello stato dell’arte del dibattito sulla tassazione dei servizi digitali.
Un ruolo costruttivo nel dibattito a livello Europeo
Il Ministro Tria in un’audizione di fronte alle commissioni Bilancio di Camera e Senato aveva osservato che “per quanto riguarda i provvedimenti di attuazione della web tax, eravamo in attesa di decisioni a livello europeo per avere provvedimenti concordati, poi si è rimandata questa azione”. La dilazione allude al mancato accordo raggiunto in sede di Consiglio nello marzo scorso. Resta, tuttavia, da chiedersi se tale postura attendista non possa rivelarsi controproducente nel lungo termine in un contesto europeo connotato da un forte attivismo politico in merito alla tassazione digitale. La mancata approvazione delle due direttive europee finalizzate ad adeguare le norme fiscali all’economia digitale deve, infatti, essere attribuita alla strenua opposizione di Irlanda, Danimarca, Svezia e Finlandia che dell’opposizione frontale ad una proposta che tassi i ricavi e non i profitti hanno fatto la loro bandiera. Senza necessariamente ricadere nel manicheismo tra panacea comune e comunitaria alle asimmetrie tra tassazione dei giganti digitali e industrie tradizionali (una Direttiva europea presenterebbe con ogni probabilità divergenze in fase di implementazione a livello nazionale) e misura suicida e anti-innovazione, l’Italia ha la possibilità di ritagliarsi un ruolo di spicco nella partita che potrebbe giocarsi a Bruxelles. Condizionale d’obbligo, ma prospettiva reale. Sebbene il dibattito si sia spostato sull’auspicata soluzione globale all’OCSE, il Presidente eletto dell Commissione Europea Ursula von der Leyen ha scritto a chiare lettere nel suo programma che, qualora non si giunga ad una soluzione condivisa entro la fine del 2020, l’Unione Europea agirà da sola. Prospettiva recentemente ribadita anche dal Commissario alla Concorrenza Vestager.
Una maggiore visibilità politica per la questione
L’Italia – assente qualunque dibattito pubblico sul tema – si era affrettata a riscrivere la web tax con la legge di bilancio 2019 recependo quasi alla lettera le indicazioni della proposta di direttiva varata dalla Commissione Europea. Tale atteggiamento, all’apparenza virtuoso nei confronti del legislatore europeo, cela però l’incapacità o mancata volontà di formulare proposte concrete e alternative a quelle della Commissione Europea. Prescindendo dalla desiderabilità o meno di una web tax a livello nazionale, un dibattito a livello politico ancor prima che tecnico si rende necessario per chiarire quali potrebbero essere i punti fermi che l’Italia porterà ai tavoli del G7/ Oecd – dove finora ha seguiro la linea della Francia – e, qualora la discussione dovesse riaprirsi, a Bruxelles.
La proposta che è al momento sul tavolo dell’Oecd basata su due pilastri. Il primo è basato sul concetto chiave che gli utenti contribuiscano alla creazione del valore delle società: i profitti dovrebbero quindi essere tassati nei paesi in cui si trovano gli utenti. Il secondo istituirebbe un’aliquota globale minima tesa a disincentivare il trasferimento degli utili da parte delle società.
Se da un lato il secondo pilastro, spostano la base imponibile a vantaggio dei Paesi con un grande mercato potrebbe penalizzare l’Italia, dall’altro una minimum tax – in particolar modo se si confronta l’Italia con i paesi nordeuropei – non avrebbe ricadute maggiori su un paese ad alta fiscalità come il nostro.
Appiattirsi dietro alle posizioni dei maggiori attori a livello globale significherebbe ignorare le conseguenze che le diverse soluzioni potrebbero avere per il mercato interno e per la competitività internazionale dell’Italia. Se l’aspro confronto tra Parigi e Washington – risolto solo il parte dall’intesa trovata al G7 tra Macron e Trump secondo la quale la Francia si impegnerà a rimborsare alle multinazionali statunitensi la differenza tra il 3% previsto dalla Digital Tax francese e ciò che verrà sancito in sede OECD – può valere da monito alle consequenze e ricadute che azioni isolate a livello nazionale possono avere, non vi sono pericoli impliciti ma solo benefici nell’avviare una seria riflessione sul tema.
La posta in gioco per il nuovo Governo
Il nuovo esecutivo avrà l’opportunità di presentarsi come un partner affidabile e un soggetto costruttivo nella costruzione di un omogeneo sistema internazionale di tassazione. Un documento interno della Commissione trapelato nei giorni scorsi sottolineava la cruciale importanza di una concordanza di visioni tra Paesi membri su quale posizione portare avanti all’Oecd per una soluzione globale. Fughe in avanti e soluzioni affrettate dettate da esigenze di bilancio nel varare i decreti attuativi o, ancor peggio, tese a garantirsi degli elettori e delle associazioni di categoria sarebbero controproducenti e intempestive.