Elio Catania non è d’accordo con l’ipotesi annunciata dal Governo di istituire una tassa sui big stranieri della tecnologia e di Internet, che spesso possono godere di trattamenti fiscali favorevoli, come la possibilità di pagare all’estero, ad aliquote più basse, le tasse sui guadagni maturati in Italia. Il motivo di questa sua contrarietà sta nel non voler mettere un freno all’innovazione, che se trovasse terreno favorevole per dispiegare tutte le proprie potenzialità potrebbe far registrare in Italia un aumento considerevole del prodotto interno lordo. “Già in Italia c’è un clima contrario all’innovazione – spiega il presidente di Confindustria digitale in un’intervista al quotidiano La Stampa – Un provvedimento come la digital tax rischierebbe solo di dar fiato a chi vuole frenare. Sarebbe grave per tutta l’economia. Se il pistone digitale spingesse a pieno regime, avremmo una crescita del Pil di un punto e mezzo in più l’anno».
L’imposta, secondo quando annunciato dal Premier Matteo Renzi e dal sottosegretario Enrico Zanetti dovrebbe scattare dal 2017, ma sarà inserita nella legge di Stabilità già da quest’anno. “Mi auguro – spiega Catania – che il presidente del Consiglio abbia voluto formulare un richiamo nei confronti di Bruxelles ad accelerare, per trovare una soluzione a livello europeo. Questo non è un tema che tolleri normative tampone a livello locale. Internet ha un impatto globale. Come ho spiegato l’anno scorso in un’audizione alla Commissione Finanze della Camera, per venirne a capo è necessario un coordinamento internazionale delle politiche tributarie, e la fine della concorrenza sleale tra le diverse giurisdizioni. L’Ocse sta lavorando proprio in questo senso, e dovrebbe dare una prima risposta il 15 ottobre».
Poi Catania scende nello specifico della norma proposta dal Governo: “Siamo contrari all’istituzione di una bit tax, ovvero di un’imposta basata sull’utilizzo dei dati da parte di un sito web, e riteniamo sbagliata l’idea di una ritenuta sui pagamenti per le transazioni del commercio elettronico, perché potrebbe limitare l’espansione dell’economia. Condividiamo invece le ipotesi di rivedere le normative che regolano le transazioni intragruppo, per evitare che siano troppo distanti da quelle tra imprese indipendenti. Si può ragionare inoltre sull’idea di stabile organizzazione, sostituendola con il concetto di presenza significativa. Ma il punto fondamentale è un altro: L’Italia ha un buco pubblico e privato di investimento nel digitale pari a 20-25 miliardi l’anno. Mi riferisco a rete, progetti, infrastrutture. Solo il 5 per cento delle aziende compie transazioni online. È questa la vera tassa che impedisce alla nostra economia di crescere più velocemente. Qui non si tratta né di Google, né di Telecom, ma del nostro futuro».
E il primo obiettivo da perseguire, secondo Catania, è quello dell’innovazione: “Se guardo la fotografia del Paese – conclude – quel che serve è un impegno di leadership per cambiare marcia sull’innovazione. Alcune realtà corrono, anche nella pubblica amministrazione. Penso ad esempio alla fatturazione elettronica. Ma quest’attitudine non è sistema. C’è resistenza, si tenta di continuare ad applicare vecchie regole a scenari mutati. La strada invece è creare le condizioni per far nascere anche qui aziende che siano protagoniste della nuova economia”.