Sul dossier sempre più bollente della tassazione dell’economia digitale Bruxelles si è mobilitata da ormai diversi mesi, ben al di qua della bufera che ha colpito e affondato la webtax italiana. Nel solo 2013 la questione è stata evocata nelle conclusioni di almeno tre vertici europei. Un “privilegio” che spetta solo ai cantieri più strategici, all’immagine dell’unione bancaria. Recependo le indicazioni dei governi nazionali, lo scorso novembre la Commissione Ue ha istituito un gruppo di saggi con il compito di elaborare un primo novero di proposte. Anche il Parlamento europeo ha in più occasioni richiamato l’urgenza di interventi armonizzati, da ultimo in una risoluzione votata in maggio. Quale sarà il punto di caduta di tutta questa attività resta però da vedere. A fortiori perché la fiscalità resta un ambito di stretta competenza nazionale. Certo è che, per una volta, tra i principali stati membri è tutta “una corrispondenza di amorosi sensi”.
Mettere fine allo stato di grazia fiscale in cui sciabordano molti player della rete – in testa i fuoriclasse americani – approfittando degli interstizi che si aprono tra i regimi nazionali, è una priorità su cui Francia, Germania e Uk appaiono perfettamente allineate. A prescindere dalle motivazioni politiche, il ritardo normativo è lampante. “I sistemi fiscali di oggi sono stati concepiti in un’età pre-computer. Quindi non è una sorpresa che spesso si scontrino con la moderna economia digitale”, è l’opinione del commissario Ue per la fiscalità Algirdas Šemeta. Su di lui penderà l’onere di tramutare in un documento più operativo (forse una comunicazione o un libro bianco) le conclusioni del citato gruppo di esperti, che saranno presentate al più tardi per giugno di quest’anno. Ad un passo dalla linea di inizio del semestre Ue di presidenza italiana. Dopodiché la palla tornerà agli stati membri. Che entro il primo Consiglio Ue di autunno dovranno indicare i passi concreti da intraprendere.
La sfida è complessa. Come avverte un documento di lavoro della stessa Commissione, “non è facile localizzare come e dove l’economia digitale crei valore e generi profitti”. E per altro, come ha spiegato Šemeta, “dobbiamo essere attenti a non prendere decisioni che possano inavvertitamente danneggiare la competitività dell’Ue”.
Il segmento del digitale è ritenuto dall’Esecutivo Ue decisivo per trainare la ripresa. Basti pensare che il suo giro d’affari in Europa cresce al ritmo del 10% all’anno e conta già per il 5% del Pil continentale.
Non è un dato sufficiente a placare gli ardori di Parigi, la prima a sollevare il nodo della tassazione delle web company in sede europea, nonché principale sponsor di una stretta che dovrà passare attraverso la creazione di “una cornice fiscale comune”. Il ministro transalpino dell’economia digitale Fleur Pellerin lo ha ripetuto senza posa: “non si può più permettere che l’Europa sia un paradiso fiscale per alcune aziende”. Il riferimento è al famigerato meccanismo di elusione su cui prosperano in particolare i giganti del web statunitensi – ma non solo – e noto come “double Irish sandwich”. Permette di accasare le attività europee di un’azienda in un paese con un regime di tassazione agevolato, come ad esempio l’Irlanda, ma utilizzandolo nei fatti come porta d’uscita per dichiarare in un paradiso fiscale straniero. Nessuna regola europea allo stato proibisce questa pratica.
Ma l’Ue sta già tentando di metterci una pezza per vie legislative ordinarie. Dal 1 gennaio 2015, anzitutto, scatteranno le nuove norme comunitarie sull’Iva a cui è assoggettata la fornitura di servizi di commercio elettronico. Le aziende dovranno pagare l’imposta sul valore aggiunto nei paesi Ue in cui risiedono i clienti e non più in quello dove sono stabilite. Anche il nuovo regolamento sulla data protection, prevedendo sanzioni salate per le imprese inadempienti, potrebbe rivelarsi un cavallo di Troia utile a recuperare dalla porta di servizio una parte del “sommerso” del digitale.
Nel frattempo, l’Ue guarda anche all’Ocse incaricata, dopo il G20 di Mosca, di studiare “indirizzi comuni” sulla cooperazione internazionale in materia di fiscalità della rete. Circolato in gennaio, un primo draft del rapporto sembra tuttavia escludere la praticabilità di una tassa diretta sulle imprese digitali. E avverte che i disallineamenti sull’argomento tra i diversi stati del G20 risulteranno in un approccio più morbido di quanto ipotizzato: ben lontano dal giro di vite vagheggiato dalla Francia. A livello europeo, anche qualora fosse scavalcato lo scetticismo di Irlanda, Paesi Bassi e Lussemburgo, resterebbe sul tappeto l’incognita competenze. Gli stati membri dovrebbero affidarsi a un accordo intergovernativo, visto che la fiscalità esula dal perimetro dei poteri comunitari. Il che moltiplica le insidie e i potenziali conflitti. La vicenda della corporate tax insegna. Tutte le iniziative intraprese negli ultimi anni in sede Ue per armonizzarla si sono presto o tardi impantanate.