È di qualche giorno fa la notizia che la Procura di Napoli ha chiesto l’archiviazione dei quattro indagati per istigazione al suicidio di Tiziana Cantone e che il Tribunale ha rigettato con ordinanza il reclamo di Facebook contro le accuse relative ai presunti ritardi nella rimozione delle tracce digitali del video hard, disseminate dagli utenti e diventate virali anche nonostante le segnalazioni di Tiziana e dei suoi legali.
Tali decisioni, benché legate ad aspetti giuridici della vicenda molto complessi e diversi tra loro, sono in breve diventate nuovo motivo di scalpore e sbalordimento rispetto all’esito di una vicenda che è stata in grado non solo di gettare nel “frullatore” digitale della rete la vita di una persona tanto sprovveduta quanto innocente, ma anche di creare terreno fertile per disinformazione e sterili discussioni sul valore e la portata del cosiddetto “right to be forgotten”.
Il diritto all’oblio – già previsto dalla legge sulla privacy – ha trovato una nuova vita grazie ad una nota sentenza della Corte di Giustizia Europea sul caso Google Spain, rafforzando il principio che consente a chiunque ne abbia diritto di richiedere ai motori di ricerca online di effettuare una procedura di de-indicizzazione e dissociazione del proprio nome o dati personali da contenuti, pagine internet e siti di natura diffamatoria, inesatta, inaccurata, offensiva o riportanti informazioni errate e non aggiornate.
L’interesse della collettività a essere messa a conoscenza di una notizia viene in questo modo contrapposto alla necessità di dare prevalenza alla tutela della sfera privata dell’individuo in tutte le sue estrinsecazioni – sociali, professionali, economiche, reputazionali, etc. – anche a prescindere dall’eventuale consenso prestato ad una iniziale diffusione delle proprie informazioni e dei propri dati tramite internet o altre fonti.
Il valore del diritto all’oblio rappresenta pertanto uno dei pilastri fondamentali del corpus normativo privacy dell’UE, ora formalmente ricompreso anche nel nuovo regolamento europeo sulla privacy, il c.d. Gdpr (General Data Protection Regulation), i cui confini sono tuttavia ancora oscuri e labili proprio perché legati alla sfera di intangibilità e immaterialità della conoscenza che la memoria della rete da sempre rappresenta e trasmette.
A tal proposito, il paradosso del caso Tiziana che vede da un lato il Tribunale di Napoli riconoscere il ritardo cronico degli hosting provider nella rimozione dei contenuti legati al video segnalato e dall’altro negare la legittimità dell’esercizio del diritto all’oblio a causa della persistente attualità della notizia e dell’assenza di provvedimenti ad hoc dell’autorità giudiziaria, fornisce, ancora una volta, un amaro spunto di riflessione sull’efficacia dei rimedi della giustizia “umana” ai tempi della viralità, dei social network e dell’internet super veloce.
La vittima, tuttavia, ha avuto ragione, sebbene troppo tardi, e su aspetti differenti da quelli legati alla sua richiesta di esercizio del diritto all’oblio tout court: i giudici hanno infatti sottolineato come il consenso inizialmente prestato all’invio di video e immagini agli ex-indagati non fosse in alcun modo da considerarsi un placet della ragazza per una ulteriore e indistinta diffusione di tali contenuti mediante le più diverse piattaforme e servizi online, rubricando così il loro comportamento nell’ambito dell’illecito trattamento e della diffamazione.
Queste fattispecie, in particolare, vengono regolate allo stesso modo fuori e dentro la rete, sebbene in quest’ultimo caso il percorso argomentativo per provarle sia tendenzialmente più complesso, mentre il diritto all’oblio ancora stenta a trovare una propria collocazione giuridica precisa e funzionale a consentire agli interessati una tutela rapida ed efficace dei propri diritti.
La pronuncia del Tribunale di Napoli, sebbene controversa, ha tuttavia aperto spiragli verso una più coerente ed equilibrata implementazione del diritto all’oblio anche e soprattutto nei casi di urgenza come quello di Tiziana, nel rispetto di importanti precedenti passati tra i quali, ad esempio, la sentenza Google – ViviDown.
Rigettando parzialmente quanto affermato da Facebook nel proprio ricorso, infatti, i giudici hanno specificato con ordinanza come nonostante non sussista un generale obbligo di sorveglianza dell’hosting provider su quanto pubblicato all’interno dei propri spazi digitali, resta comunque necessario rimuovere tempestivamente tutte le informazioni ed i contenuti illeciti segnalati dagli utenti anche in assenza di apposito provvedimento o sentenza che imponga di farlo.
In questo senso, dunque, l’appello del Presidente del Garante Privacy Antonello Soro a costruire una maggiore consapevolezza sul tema della gogna cui la rete rischia di esporre la personalità degli individui che non abbiano adeguata cognizione del proprio “io” digitale e promuovere l’educazione alla consapevolezza dei pericoli privacy verso i quali tutti i cittadini sono esposti, è certamente la direzione verso la quale le istituzioni e aziende dovrebbero muoversi.
In questa prospettiva, la creazione di percorsi educativi al digitale volti a promuovere e rafforzare, a livello nazionale ed internazionale, una cultura di responsabilità e sensibilità al passo coi tempi e con le nuove forme di espressione e comunicazione del mondo online, risulterà essenziale tanto per il nascente Digital Single Market quanto per i futuri cittadini italiani ed europei.