La clava fiscale abbattutasi su Apple è pronta a menare nuovi colpi. Il prossimo gigante sulla lista dei cattivi di Margrethe Vestager è Amazon. L’indagine aperta dal timoniere dell’antitrust Ue sugli accordi fiscali “preferenziali” tra la società di Jeff Bezos e il Lussemburgo è ormai agli ultimi fuochi. Nonostante la multa, o meglio il risarcimento, che si profila all’orizzonte sarà decisamente più basso rispetto a quello, astronomico, che Cupertino dovrà versare al governo irlandese.
Che poi la lady di ferro danese sia intenzionata ad istruire nuove inchieste lo comprova, più di ogni dichiarazione pubblica, uno scambio di cinguettii con il finanziere (e grande elettore di Matteo Renzi) Davide Serra. Lui, lo scorso 16 settembre, twittava: “Ci sono 185 Ceo americani che pensano sia legale pagare lo 0,05% di tasse in Europa. Facciamo dei controlli subito”. Il riferimento era a una lettera inviata ai governi europei dal Business Roundtable, associazione che rappresenta 185 multinazionali americane, in cui si chiedeva di rivedere la decisione Apple. Risposta immediata della Vestager: “E’ quello che farò”. Ce n’è abbastanza da far tremare i polsi sul serio agli alti papaveri della Silicon Valley.
Le strategie di elusione o ottimizzazione fiscale di molti altri colossi tech, a cominciare da Facebook e Google, potrebbero presto trovarsi nel mirino della commissaria alla concorrenza. Ecco che allora il Wall Street Journal moltiplica gli attacchi contro una Vestager che non esita a definire “vendicativa” e “rancorosa”. E le accuse di protezionismo europeo contro le web companies americane tornano a fare capolino. Anche da parte delle istituzioni di Washington. Un film già visto sul caso Google. Questa volta l’amministrazione Obama è intervenuta con forza ancora prima che le indiscrezioni sul ceffone ad Apple da 13 miliardi venissero ufficializzate. In un documento firmato dal dipartimento del tesoro Usa si accusava senza mezzi termini la Commissione di comportarsi come “un’autorità fiscale sopranazionale”. Ma le pressioni istituzionali provenienti dall’altra sponda dell’Atlantico non sembrano sortire effetti.
La Vestager non mostra segni di cedimento. Anche perché sa di avere le spalle coperte. La sanzione ad Apple è stata votata dall’intero collegio dei commissari europei. C’è, inoltre, la solida sponda di Germania e Francia, che da anni denunciano apertamente le pratiche delle multinazionali Usa. Su tutte quel “double Irish sandwich” che a lungo ha permesso a fior di aziende di dirottare i profitti europei verso paradisi fiscali sfruttando apposite “scappatoie” permesse da paesi come Olanda e Irlanda. I veri ostacoli sono di natura tecnica. Bruxelles non possiede competenze in materia fiscale. La Vestager sta spingendo al limite i propri poteri in materia di aiuti di stato per sanzionare i “tax ruling” illegali.
E’ una linea di azione inedita. Il problema è la sua tenuta giuridica. Apple e governo irlandese hanno annunciato ricorso alla Corte di Giustizia Ue. E’ la strada già intrapresa dai governi di Lussemburgo e Olanda, i primi a cadere sotto i colpi delle multe dell’antitrust per due accordi fiscali siglati rispettivamente con Fiat e Starbucks. Il guaio è che se la corte del Lussemburgo accogliesse le loro ragioni questo andrebbe a minare, se non addirittura bloccare le future mosse dell’antitrust Ue. Di certo c’è che l’attivismo della commissaria è andato a colmare un vuoto enorme creato dall’inerzia dagli stati membri. I governi dell’Ue discutono di convergenza delle imposte sul reddito delle società da almeno quindici anni. Ma le iniziative in questa direzione si sono sempre arenate. Intanto la serrata competizione fiscale tra i paesi Ue veniva abilmente cavalcata da multinazionali americane ed europee.
Come dimostra lo scandalo LuxLeaks. Le cose cominciano a cambiare. A valle della multa record ad Apple la Commissione ha deciso di rilanciare la proposta per creare una base imponibile comune per l’imposta sulle società. Una versione aggiornata del testo dovrebbe essere ufficializzata a fine ottobre. E’ un primo timido passo verso l’armonizzazione, in quanto introdurrà una metodologia unica per il calcolo dei profitti aziendali tassabili. Ma la questione non interessa solo l’Europa. Basti pensare che Apple, Microsoft, Google, Cisco, Oracle e molti altri tengono fuori dagli Usa decine di miliardi di euro di profitti per sfuggire all’elevata corporate tax del paese. Lo sforzo di contrasto, dunque, non può non passare attraverso una concertazione internazionale. Un anno fa, su richiesta del G20, l’Ocse ha presentato un piano composto da 15 azioni per contrastare ottimizzazione ed elusione fiscale. Al centro dell’iniziativa è soprattutto la fiscalità dell’economia digitale. Spesso difficile da collocare. Basti dire che secondo una indagine di Credit Suisse le aziende tech pagano in media il 20% di meno di imposte rispetto a quelle energetiche.