Doutta (Insead): “II governo punti sull’innovazione”

“Il Paese non è ancora riuscito a trasformare la crisi in opportunità e non ha capito  che la tecnologia rappresenta una chiave”

Pubblicato il 28 Nov 2011

Centri di ricerca poco produttivi, pressione fiscale eccessiva e
scarsa competitività fanno dell’Italia un modello scarsamente
innovativo. La fotografia è scattata dal Global Innovation Index
(Gii), il rapporto delle Business School “Insead” che ogni anno
stila una classifica tra 125 nazioni di tutto il mondo in materia
di innovazione e sviluppo economico. E da cui emerge come il nostro
Paese proceda a zig zag nella graduatoria: situato quest’anno al
35° posto della classifica generale – al 38° nel 2010 – perde
quattro posizioni rispetto al 31° conquistato nel 2009. A spiegare
il perché di questo ritardo – e soprattutto cosa fare per
recuperarlo – è Soumitra Doutta, docente
dell’Insead considerato a livello mondiale un vero e proprio guru
dell’innnovazione.
Professor Doutta cosa fare per colmare questo “innovation
gap”?

Prima di tutto c’è da fare una puntualizzazione: l’Italia
oscilla nella parte media della classifica, il che vuol dire che ha
le potenzialità per risalire la china data la sua forza
industriale e, soprattutto, il traino del made in Italy. Il vero
problema non sono dunque le condizioni date, quanto piuttosto la
capacità di elaborare strategie innovative in momenti di forte
crisi economica, come questo che stiamo attraversando. L’Italia
non riesce ancora a trasformare la crisi in un’opportunità.
Ma è davvero possibile trasformare la crisi economica in
opportunità o è solamente uno slogan?

Ci sono Paesi che lo hanno fatto in passato e lo continuano a fare.
La Finlandia dei primi anni Novanta, ad esempio, che aveva
risentito del crollo dell’Unione Sovietica a cui era legata da
forti legami commerciali. Una volta crollato l’Impero oltre la
cortina ha dovuto ripensare tutto il proprio modello produttivo,
puntando appunto sull’innovazione dei processi produttivi.
A suo avviso da quali basi dovrebbe ripartire il nostro
Paese?

La prima azione è di tipo culturale: bisogna cambiare forma mentis
e sforzarsi di pensare che ogni crisi rappresenta realmente
un’occasione unica per mettere in campo grandi riforme
economiche, ma anche politiche.
Qual ruolo può giocare la politica nazionale?
Le riforme politiche sono il necessario puntello per rilanciare il
sistema Paese. In Italia, così come in tutti i Paesi che soffrono
una crisi, c’è una mancanza di fiducia nelle leadership
politiche e nelle classi dirigenti in senso più ampio. Le riforme
servono a ricostruire la fiducia nelle élite, come è successo ad
esempio nella Spagna post-franchista. Poi bisogna – come si legge a
più riprese nel Global Innovation Index – “back to basics”,
tornare alle basi.
In che senso?
C’è un settore che fa da “struttura”, da base dunque, per
tutti gli altri. Mi riferisco a quello dell’educazione pubblica –
scuola, università e formazione dei dipendenti pubblici – a cui
devono essere destinate quote sempre maggiori di Pil come accade in
Germania o nei Paesi scandinavi. Paesi che hanno scommesso sul
capitale umano come fattore di crescita e hanno vinto, non c’è
dubbio. Contestualmente è necessario aumentare gli investimenti in
ricerca e sviluppo nelle università in modo da facilitare le
sinergie con il tessuto produttivo nazionale che – specie in Italia
dove le Pmi sono l’architrave del sistema – ha bisogno di un
canale preferenziale per dialogare con i migliori cervelli del
Paese.
Ha fatto riferimento alle piccole e medie imprese come
architrave dell’economia italiana. Non crede che la loro
difficoltà a crescere e diventare “grandi” possa rappresentare
un grande ostacolo per la ripresa?

La questione non va affrontata in termini di grandezza, semmai in
termini di capacità di competizione a livello nazionale e globale.
La Silicon Valley pullula di start up o micro-aziende che però
sono altamente competitive anche a livello globale, nonostante le
dimensioni ridotte. Ma lì l’alto livello di competitività è
legato al fatto che la vita di chi vuole fare business è
decisamente più facile.
In Italia non lo è.
No, nel vostro Paese le imprese sono strozzate da una burocrazia
costosa e inefficiente che, oltre ad impattare negativamente sul
tessuto produttivo locale, scoraggia anche gli investimenti esteri.
Siete penalizzati (nella classifica stilata dall’Insead
l’Italia occupa l’85esima posizione per contesto favorevole
agli investimenti, ndr) dagli elevati costi necessari per avviare
un’impresa e dell’enorme pressione fiscale che grava sui
profitti, più bassa soltanto di Brasile, Algeria, Colombia,
Bolivia, Tajikistan e Argentina. Ecco, alleggerire la burocrazia è
un’azione da realizzare. In un contesto siffatto l’innovazione
deve diventare un imperativo di governo ovvero entrare di diritto
nelle politiche economiche, da qualunque parte politica esse
provengano. Ma per farlo c’è bisogno di classe dirigente
giovane. Se in Italia continuate ad affidarvi a “grandi vecchi”
non avrete mai figure di spicco come Barack Obama o un David
Cameron a trainare il cambiamento e, di conseguenza, incontrerete
sempre più difficoltà ad innovare.
Rispetto alle strategie di innovazione, l’Unione Europea
come può essere utile?

Bruxelles può fare da punto di incontro tra i Paesi meno
innovativi e quelli più innovativi e fare in modo che gli uni
imparino dagli altri. Nel Vecchio Continente ci sono realtà ad
alto tasso di innovazione: nella prima e seconda posizione del
Global Innovation Index figurano rispettivamente la Svizzera e la
Svezia e tra le prime dieci posizioni quattro sono occupate da
Finlandia, Danimarca, Paesi Bassi e Regno Unito. La maggior parte
dei Paesi dell’Unione Europea si collocano tra i primi trenta,
anche grazie al recente ingresso di Estonia, Ungheria, Repubblica
Ceca, Cipro e Slovenia che registrano straordinarie
performance.
Internet ha da poco compiuto 20 anni all’insegna del Web
2.0 e di Facebook & co. diventati “pilastri” della Rete. Quale
ruolo possono svolgere i social network
nell’economia?

I social network offrono alle aziende nuovi strumenti di marketing,
utili a far conoscere meglio ai clienti il loro marchio e i loro
prodotti: le tecniche del marketing virale permettono di
raggiungere grandi masse di consumatori con una rapidità prima
inimmaginabile. Inoltre Facebook & co. possono rappresentare un
prezioso strumento per creare un rapporto più costruttivo con gli
stakeholder interni e esterni: azionisti, dipendenti, clienti. Ibm,
ad esempio, usa le piattaforme di social media per coinvolgere
migliaia di suoi dipendenti sparsi nel mondo nelle sue decisioni
strategiche. Infine i social network hanno insegnato alle aziende
ad accelerare i loro processi interni: ci sono aziende che usano
sistemi simili a Twitter per ottenere dei feedback immediati sulle
loro decisioni chiave.
Lei cosa direbbe alle piccole e medie imprese italiane per
convincerle della bontà del Web?

Direi che il Web è un dono, una benedizione, che Internet è “la
grande livellatrice”: su Internet nessuno sa se sta dialogando
online con una piccola impresa o con la filiale di una grande
multinazionale. E qualsiasi impresa, per quanto piccola, ha accesso
allo stesso mercato globale online di un grande gruppo. Ciò detto,
è però certo che le piccole imprese devono fronteggiare
difficoltà maggiori delle grandi. Intanto perché non hanno, per
forza di cose, uno staff dedicato. Molti di questi problemi saranno
risolti dalla tecnologia stessa: il cloud, ad esempio, consente di
avere Ict all’avanguardia a basso costo. Ma su altri fronti, più
strutturali, sarebbe bene che le imprese ricevessero supporto dai
governi, dalle istituzioni. Sarebbe utile, ad esempio, che pubblico
e privato creassero delle partnership per aiutare le piccole
imprese a superare il gap tecnologico.

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