Analizzando separatamente l’impatto sui salari e sulle ore lavorate, la tecnologia risulta avere un impatto “polarizzante” sulle ore lavorate, ma non sui salari. Questa evidenza suggerisce che in Europa il cambiamento tecnologico ha determinato un impatto sostanzialmente diverso da quello osservato negli Stati Uniti. In Europa la tecnologia tende ad avere un impatto sui livelli occupazionali; mentre negli Stati Uniti l’impatto è sia sui livelli occupazionali sia sui salari.
E’ questa la conclusione dello studio condotto da Giuseppe Ragusa, LUISS, Paolo Naticchioni, Università Roma Tre, e Marta Auricchio, Banca d’Italia e LUISS, e presentato oggi al convegno “Internet, Jobs & Skills: an Opportunity for Growth” organizzato da Telecom Italia.
Le straordinarie innovazioni nel campo dell’Information technology degli ultimi trent’anni hanno trasformato i sistemi produttivi dei paesi più avanzati, spiegano gli autori. Questa trasformazione ha investito con particolare forza il mercato del lavoro. Le nuove tecnologie e i conseguenti processi di riorganizzazione della produzione hanno favorito una sostenuta crescita della domanda relativa di lavoro qualificato da parte delle imprese. All’aumento del livello d’istruzione medio degli occupati è così corrisposto un incremento della disuguaglianza salariale tra lavoratori più e meno qualificati. L’idea, che nei circoli accademici va sotto il nome di skill-technological change, è che tecnologia e lavoro qualificato siano fattori fra loro complementari e pertanto il progresso tende a premiare in maniera disproporzionata lavoratori con alto livello di capitale umano.
Negli anni più recenti è emersa una visione più articolata di come il progresso tecnologico possa influenzare il mercato del lavoro. Secondo la teoria del cambiamento tecnologico task-biased, le nuove tecnologie sono complementari al fattore lavoro nello svolgimento di mansioni non ripetitive, ma tendono a sostituire lavoratori nello svolgimento di mansioni ripetitive (routinarie). In questo senso favoriscono la domanda relativa di lavoro nelle “buone” occupazioni connotate da task di natura cognitiva e interattiva; ma favoriscono anche “cattive” occupazioni, quelle in cui si svolgono compiti non routinari di natura “manuale”. La tecnologia deprime invece la domanda di lavoro nelle occupazioni “intermedie”, quelle cioè in cui le mansioni, siano esse cognitive o manuali, hanno carattere routinario. Il risultato di questo processo è la cosiddetta polarizzazione del lavoro che si concentra nelle buone e nelle cattive occupazioni, mentre quelle intermedie tendono a scomparire. L’evidenza empirica disponibile sia per Usa sia per l’Europa ha confermato le predizioni della teoria, mostrando una tendenza dell’occupazione a polarizzarsi.
Per gli Stati Uniti molti lavori mostrano che negli ultimi 30 anni si è verificato un processo di polarizzazione salariale dovuto al contenuto tecnologico delle occupazioni, ma anche a fattori istituzionali quali la perdita di potere dei sindacati. Per quanto riguarda l’Europa, l’evidenza non è altrettanto univoca. In alcuni paesi è stata osservata una contemporanea diminuzione della disuguaglianza e dei rendimenti dell’istruzione, fenomeni difficilmente conciliabili con un pervasivo impatto del cambiamento tecnologico skill-biased o task-biased.
Il lavoro di Ragusa–Naticchioni–Auricchio si concentra sulle dinamiche di polarizzazione dei salari considerando l’Europa nel suo complesso. In particolare, l’analisi considera 12 Paesi europei (Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Paesi Bassi, Spagna, Svezia, Regno Unito), per il periodo 1995-2007.
I risultati mostrano che la distribuzione dei salari a livello Europeo non ha subito processi di polarizzazione: i salari associati ai tre livelli d’istruzione sono evoluti in modo sostanzialmente analogo, cosicché sono rimasti invariati sia il rapporto fra salari dei lavoratori altamente e mediamente qualificati e sia quello fra lavoratori mediamente e scarsamente qualificati.
I risultati sull’impatto dell’Ict sul mercato del lavoro possono essere così riassunti: Un effetto positivo sul monte salari dei lavoratori qualificati, confermando la maggiore complementarietà di tali lavoratori con la tecnologia; Un impatto negativo sul monte salario dei lavoratori mediamente qualificati, coerentemente con l’idea che tale categoria è maggiormente sostituibile dal cambiamento tecnologico; Un impatto non rilevante sul monte salari dei lavoratori scarsamente qualificati. Di qui analizzando separatamente l’impatto sui salari e sulle ore lavorate, la tecnologia risulta avere un impatto “polarizzante” sulle ore lavorate, ma non sui salari. Questa evidenza suggerisce che in Europa il cambiamento tecnologico ha determinato un impatto sostanzialmente diverso da quello osservato negli Stati Uniti.
Negli Usa la presenza di lavoratori altamente qualificati ha effetti benefici su tutta l’economia, generando ricchezza e posti di lavoro mediante un effetto moltiplicatore che va ad aumentare i posti di lavoro e i salari di chi fornisce servizi locali. Specificamente, per ogni nuovo posto di lavoro ad alto contenuto tecnologico si producono cinque nuovi posti nel settore dei servizi.
Un’analisi simile ma condotta sui dati italiani mostra che l’effetto moltiplicatore osservato negli Stati Uniti è molto meno pronunciato in Italia – così tanto da apparire quasi nullo. Quali sono le ragioni strutturali di questa differenza tra Usa e Italia? Il moltiplicatore è determinato dall’aumento dei rendimenti dei lavori nei settori ad alto contenuto innovativo rispetto a quelli degli altri settori e alla loro capacità di generare nuova domanda di servizi, cioè al consumption spillover. Analizzando la situazione italiana, entrambi gli elementi del moltiplicatore appaiono mancanti. Anche considerando soltanto i lavoratori più qualificati, i salari italiani sono relativamente più bassi di quelli di altre economie, anche a causa di una specializzazione produttiva più lontana dalla frontiera tecnologica rispetto a quella delle imprese di altre economie. Anche ammettendo che l’effetto di spillover esista comunque, è possibile che lavoratori con salari elevati non trovino sbocco per la propria domanda potenziale di beni e servizi a causa delle numerose rigidità che caratterizzano la nostra economia. Il fatto che nell’analisi dei dati italiani il moltiplicatore di Moretti non trovi conferma non significa che la tecnologia non possa potenzialmente innescare un circolo virtuoso sul fronte dell’occupazione. Significa semplicemente che la nostra economia è attualmente priva delle caratteristiche e condizioni necessarie per cui questo possa accadere.