Stop (per ora) all’aumento dell’equo compenso. Lo ha deciso il ministro dei Beni culturali, Massimo Bray, dopo l’incontro con i rappresentanti delle maggiori associazioni di categoria, durante il quale ha annunciato l’avvio di un approfondito studio sull’uso dei dispositivi elettronici che vengono usati per effettuare copie digitali. Insomma, l’obiettivo è cercare di capire se le tariffe suggerite da Siae siano congrue con la realtà italiana. Il “listino” Siae prevede che per gli smartphone il contributo per copia passerà dagli attuali 90 centesimi a 5,20 euro mentre per i tablet dai dai 3,20 ai 5,20 euro e per i computer da 3,20 a 6 euro. L’analisi che Bray intende mettere in campo punta a capire quali dispositivo utilizzano realmente gli utenti italiani per effettuare copie private.
Il possibile aumento dell’equo compenso, inserito nel processo di revisione del cosiddetto decreto Bondi, aveva messo in allarme industria e consumatori. Il presidente di Confindustria Digitale aveva annunciato la disponibilità delle imprese di settore a fare ricorso al Tar. “Noi abbiamo proposto al Governo di sospendere l’aumento – diceva Stefano Parisi nei giorni della bufera – convocare il tavolo tecnico con tutte le parti interessate per condurre uno studio indipendente sull’evoluzione tecnologica e il comportamento dei consumatori, recepire le raccomandazioni del Rapporto Ue dell’ex commissario Vitorino sulla copia privata, in modo da emanare, in tempi rapidi, un decreto che definisca un compenso effettivamente equo”.
Stando alle stime di Confindustria Digitale l’aumento porterebbe nelle casse della Siae circa 200 milioni di euro (175 i milioni stimati dalla Società degli editori), rispetto ai 72 milioni del 2012. E se lo scorso anno il gettito da copia privata ha rappresentato il 13% del totale dell’incasso della Siae, con l’aumento attualmente proposto ne rappresenterebbe quasi il 30%, ovvero la metà della sola raccolta dei diritti musicali e 9 volte la raccolta delle opere cinematografiche, sottolinea Confindustria digitale.
Per i consumatori si era levata, invece, la voce di Altroconsumo che ha definito la tassa “iniqua”. “Chi acquista musica e film legalmente da piattaforme online paga già i diritti d’autore per poterne fruire e fare copie su un certo numero di supporti: è profondamente ingiusto che paghi una tassa anche su questi stessi supporti, trovandosi così a pagare due volte – si spiegava in una nota – Non è una misura condivisa in tutta Europa: in alcuni Paesi l’equo compenso semplicemente non esiste. L’Italia si sta spingendo nella direzione sbagliata in controtendenza rispetto all’Europa dove si sta ridiscutendo alla radice l’equo compenso; in questo modo il nostro Paese penalizza la propria economia digitale in un momento in cui dovrebbe cercare di guardare al futuro.
Secondo Altronconsumo “il decreto non fa altro che innalzare le quote già imposte dal precedente decreto Bondi, portando i precedenti 80 milioni di prelievo annuo a oltre 200 milioni. Secondo la legge, poi, il Ministero avrebbe dovuto procedere all’aggiornamento del precedente decreto, sulla base dei lavori di un tavolo tecnico da istituire con tutti i rappresentanti delle categorie interessate. Il tavolo in questione non è mai stato istituito: ignorati i consumatori, solo quattro amici al bar hanno deciso per tutti”.