L'ANALISI

Europa “vaso di coccio” nella tech war Usa-Cina

In notevole ritardo sulle tecnologie digitali emergenti, il Vecchio Continente rischia ricadute importanti sul fronte della competitività economica e sulla capacità di costruirsi un sistema di difesa adeguato. L’analisi di Umberto Bertelè professore emerito di Strategia e chairman degli Osservatori Digital Innovation della School of Management del Politecnico di Milano

Pubblicato il 23 Mag 2019

Umberto Bertelè

Professore emerito Politecnico di Milano

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È tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento che gli Stati Uniti strapparono al Regno Unito la leadership mondiale, prima sul piano economico e poi su quello politico-militare. Una leadership che è rimasta da allora saldamente nelle loro mani, superando il duro confronto militare con il Giappone e la Germania nella seconda guerra mondiale e la susseguente “guerra fredda” con la Russia. Una leadership che però gli Stati Uniti vedono sempre più in pericolo, per il boom prima demografico e poi economico e tecnologico che ha permesso alla Cina di accrescere non solo la potenza militare, ma anche la sua influenza in diverse aree del mondo. I numeri giustificano questo timore, che rischia di diventare un’ossessione: la popolazione cinese, 1,4 miliardi di persone, è circa quattro volte quella statunitense; il pil statunitense continua a essere superiore – a prezzi e tassi di cambio correnti – a quello cinese, 22.300 miliardi di dollari contro 15.500 secondo le proiezioni Imf al 2020, ma la distanza si è enormemente accorciata rispetto al 2006 quando il rapporto era di 13.800 a 2.800; a parità di potere di acquisto il sorpasso è invece già avvenuto, nel 2014, e il divario a favore dei cinesi è in crescita; solo il confronto nel Pil pro capite continua a vedere un netto predominio statunitense.

Il caso Huawei va visto più in questa prospettiva che non in quella – comunque rilevante – della guerra commerciale in atto. Ed è evidente che  la decisione assolutamente “irrituale” di Trump di mettere al bando Huawei ha anche una motivazione politica interna, di acquisizione del consenso ai danni dei democratici, che sono stati appunto forzati dall’opinione pubblica a dare la loro benedizione a una misura che viceversa è vista con grande preoccupazione da tutte quelle imprese che (come Apple o Microsoft) realizzano in Cina una quota significativa del loro fatturato e che temono di rimanere vittime delle inevitabili ritorsioni.

Perché la messa al bando di Huawei è “irrituale”? Perché non esistono precedenti storici di questa portata, se si eccettua il caso su scala molto minore di Zte. Non esistono perché la globalizzazione è un fatto relativamente recente, la Cina è entrata nella World Trade Organization meno di vent’anni fa. Non esistono perché la precedente “guerra fredda”, quella con la Russia, avveniva fra due mondi con interrelazioni economiche molto ridotte.

Perché Huawei? Sicuramente per il ruolo sempre più rilevante che sta acquisendo– con un mix estremamente favorevole qualità-prezzo dei suoi apparati – nella infrastruttura telecom mondiale: una infrastruttura a forte valenza strategica, al di là del suo utilizzo conclamato o meno a scopi di spionaggio a favore del governo cinese. Ancor più, probabilmente, per la sua leadership tecnologica nell’ambito del 5G e per i vantaggi che ne potrebbero derivare alla Cina in una fase storica di obsolescenza di molte delle armi tradizionali a favore di quelle atte a combattere le “guerre cibernetiche”. E in qualche misura forse, se si guarda alla politica interna, per la sua elevata notorietà: cresciuta nei mesi scorsi con l’arresto in Canada, su richiesta statunitense, di Meng Wanzhou, Cfo della società e figlia del fondatore.

Quali le conseguenze per Huawei, se il bando dovesse rimanere in vita e non essere viceversa revocato, per il raggiungimento di una intesa commerciale complessiva Stati Uniti-Cina o per evitare una ritorsione particolarmente dolorosa (quale quella velatamente minacciata sulla fornitura delle cosiddette terre rare o quella estrema più improbabile di usare i 1200 miliardi di dollari di titoli del Tesoro statunitense detenuti per destabilizzarne il mercato?) Financial Times di qualche giorno fa titolava “Can Huawei survive US blacklisting? Chinese telecoms group will need to look elsewhere to procure key components”, con riferimento al fatto che lo scarso anno Huawei – che fattura 107 miliardi di dollari – ha acquistato da imprese statunitensi componenti (in prevalenza microprocessori) per un valore di ben 11 miliardi. L’impatto, almeno nel breve-medio termine, potrebbe essere molto penalizzante, perché il bando andrebbe a colpire, oltre alle infrastrutture telecom, anche gli smartphone: ove Huawei è recentemente diventata – superando Apple – numero due al mondo alle spalle di Samsung. Agli  effetti diretti, quali le difficoltà nella produzione causate dalla ridotta disponibilità di componenti “critici”, andrebbero infatti ad aggiungersi quelli – già visibili – indiretti: BT e Vodafone, le due maggiori telecom inglesi, e le giapponesi Kddi e SoftBank hanno bloccato il lancio programmato dei suoi nuovi modelli di smartphone nel timore che la sospensione preannunciata da Google (in ossequio alle disposizioni di Trump) della licenza Android si traduca in un loro malfunzionamento.

Ci sarebbero conseguenze per le imprese statunitensi, al di là della perdita degli 11 miliardi di dollari di ricavi per i tradizionali fornitori di microprocessori e di altri componenti? È quasi certo – se il bando rimarrà in vita – che la Cina sarà “costretta”, per “non perdere la faccia” (un elemento centrale nella sua cultura come sottolinea sempre Giuliano Noci), a una ritorsione altrettanto visibile nei riguardi di una grande impresa statunitense. E altre misure potrebbero essere messe in pista, volte a ostacolare l’accesso al loro mercato interno (determinante per la profittabilità di molte imprese) o le forniture delle preziose terre rare (di cui la Cina è di gran lunga il principale produttore mondiale).

Qualche riflessione sugli effetti più a lungo termine. Android ad esempio, attualmente presente nell’80% degli smartphone del mondo, potrebbe veder calare fortemente la sua quota di mercato se i cinesi decidessero di mettere a punto un loro sistema operativo. E i cinesi potrebbero a loro volta perdere il quasi monopolio sulle terre rare, se l’incertezza sulle forniture spingesse gli Stati Uniti a sfruttare giacimenti (esistenti in diverse parti del mondo) attualmente non sfruttati.

Se lo scontro si radicalizzasse, si potrebbe addirittura andare verso un mondo diviso in due dal punto di vista degli scambi commerciali, con un’area di influenza statunitense e una cinese. Con l’Europa, purtroppo, come “vaso di coccio” nello scontro fra le due potenze dominanti o come – usando le parole di Federico Fubini in un suo recentissimo fondo sul Corriere della Sera – “terra di conquista”. Perché purtroppo lacerata al suo interno dagli interessi contrastanti dei diversi Paesi. Perché in notevole ritardo,  rispetto a Stati Uniti e Cina, nell’ambito delle tecnologie digitali emergenti: con potenziali conseguenze sulla competitività della sua economia, ma anche sulla capacità di costruirsi finalmente un sistema di difesa adeguato se saranno le “guerre cibernetiche” a caratterizzare il futuro degli armamenti.

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