I social network aprono finestre sulla vita privata delle persone. Ma per le aziende è davvero un vantaggio guardare dentro le finestre dei dipendenti? Il mondo del lavoro se lo sta chiedendo con sempre maggior frequenza. Negli Usa il numero di lavoratori licenziati per i propri post è in aumento e sono già molte le aziende che controllano gli account social dei propri dipendenti. Il 39% dei datori di lavoro cerca informazioni prima di assumere dipendenti, secondo un sondaggio di CareerBuilder. Di questi il 43% dichiara di aver depennato candidati dopo aver trovato informazioni o foto inappropriate per un aspirante dipendente. Il 19% dichiara di aver ammesso i candidati a colloqui ulteriori perché aveva riscontrato, dalle attività sui social, buone capacità comunicative o segnali di professionalità. Ma il dibattito è aperto, riporta il Wall Street Journal: per le aziende è vantaggioso il monitoraggio social? Oppure la mole di post non ha niente a che fare con il lavoro e anzi mette l’azienda a rischio infrazione della privacy?
Si schierano su fronti opposti Nancy Flynn, fondatrice e direttore esecutivo dell’ePolicy Institute, e Lewis Maltby, presidente del National Workrights Institute. “Linea dura” per l’ePolicy Institute secondo cui l’azienda ha tutto da guadagnare da un accurato “scanner” sulle attività social dei propri dipendenti: “Il management non solo ha il diritto, ma perfino il dovere di farlo. Omettere un controllo del genere significa rischiare di dover affrontare dopo dei problemi. Non solo attività social scorrette possono portare tensioni nei luoghi di lavoro, ma possono anche danneggiare la reputazione di una compagnia obbligandola al ricorso ad azioni legali: come le e-mail, anche i social network possono essere citati in giudizio come prova”.
Secondo un sondaggio dell’Electronic Business Communication Policies and Procedures che manteneva l’anonimità degli interpellati il 14% dei dipendenti ha ammesso di aver inviato a terzi e-mail contenenti materiale riservato dell’azienda; il 6% ha inviato dati di carte di credito appartenenti a clienti e numeri di previdenza sociale; ed un altro 6% ha trasmesso informazioni elettroniche sulla salute dei pazienti. “Ovviamente è importante che le imprese non usino i social media per fare discriminazioni di età, etnia, e credo religioso – dice Flynn -. E i datori di lavoro devono assicurarsi di avere motivi validi per respingere eventuali candidati. Ma è indubbio che questo tipo di controlli rappresenti un modo per evitare rischi e conseguenze legali”.
Di tutt’altro parere Lewis Maltby secondo cui “non c’è nessun vantaggio per le imprese nel monitorare in modo intenso i social, ai fini della salvaguardia dei propri interessi legittimi – dice il presidente del National Workrights Institute -. L’unica situazione che legittima un’attività di controllo del genere è quando i datori di lavoro hanno ragione di credere che il dipendente stia facendo qualcosa di illegale”.
Il fatto è troppo spesso le attività social vengono usate come alibi, “come un’arma in una battuta di caccia: spesso il licenziamento avviene per ragioni che non hanno nulla a che vedere con il lavoro”. Anche la “preselezione” di aspiranti lavoratori non funziona: scartare qualcuno per motivi concernenti unicamente la vita privata può essere svantaggioso non solo per il lavoratore ma anche per le aziende “che magari si trovano a scartare, per motivi personali, qualcuno di veramente valido”.