E’ sacrosanto. I riders, o crowd workers dir si voglia, come quelli di Foodora, Deliveroo, UberEat, Take it Easy, hanno disperato bisogno di tutele lavoristiche. Il decreto dignità annunciato dal ministro Di Maio, che qualifica come lavoratori dipendenti tout court i riders, estende loro il diritto ad un trattamento economico minimo, come quello ad un’indennità di disponibilità per i periodi di non lavoro, ed infine il diritto alla disconnessione, rischia, però, di creare almeno tre nuovi problemi per risolverne uno.
In primo luogo, il decreto, estende ai lavoratori della gig economy una disciplina vecchia, nata agli inizi del novecento, cucita su misura dei lavoratori della fabbrica fordista e dunque di coloro che prestavano la loro attività lavorativa entro spazi predefiniti, nel rispetto di un orario di lavoro predefinito e sotto la sferza del potere direttivo datoriale.
Ed invece, i riders, pur restando parte debole del rapporto di lavoro, non mettono piede né in fabbrica né in ufficio, ma prestano attività di lavoro in spazi non definiti ovvero “itinerante”, svolgono la loro attività non secondo un orario di lavoro fisso ma secondo uno variabile perché autodeterminato, e non sono soggetti al potere direttivo che la nostra legislazione del lavoro ha disegnato.
Non a caso, il Giudice del lavoro di Torino, in una recente sentenza di maggio, li ha qualificati come collaboratori coordinati e continuativi ravvisando nell’attività dei riders soltanto un vincolo di coordinamento con la piattaforma e la loro facoltà di decidere gli spazi e i tempi di lavoro.
Lo stesso diritto alla disconnessione, che è balzato agli onori della cronaca prima con la riforma del lavoro francese e poi con la legge n. 81 del 2017 a regolamentazione dello smart working, è fuori luogo in questo caso. Ai riders, infatti, deve essere garantito di poter lavorare quando vogliono, anytime direbbero gli inglesi, con un rating calibrato sulle ore di lavoro effettivamente svolte, e dunque, ad esempio, di poter lavorare strenuamente per giorni di fila per poi staccare la spina quando lo preferiscono.
Il secondo ordine problema attiene lo svilimento della contrattazione collettiva che il “decreto dignità” rischia di mettere a punto. Il ruolo dei contratti collettivi non deve essere confinato a parametro di riferimento per il trattamento economico minimo – malgrado dalle prime indiscrezioni sembrava farsi strada l’opzione per il salario minimo legale – , per le indennità di disponibilità o per le ferie.
In questa partita, piuttosto le parti sociali devono giocare un ruolo da protagonista ma in una veste diversa. Il sindacato, ad esempio, deve spogliarsi della veste di rappresentanza, perché i riders fuoriescono dagli schemi classici di rappresentanza entro cui esso tradizionalmente agisce, e indossare quella del “sindacato di servizi” in favore di questi lavoratori.
In altri termini, il sindacato deve conquistare il ruolo di intermediario tra piattaforme e lavoratore a garanzia delle tutele basilari del rapporto di lavoro dei crowd workers, alla stregua delle “umbrella companies” di estrazione belga o della “Indipendent Driver Guild” nella zona di New York, un’organizzazione nata di recente per la tutela dei lavoratori di Uber in seno all’ “International Association of Machinists and Aerospace Workers (IAM)”.
Si tratta anche di tutele in tema di privacy, considerata la notevole quantità di dati sensibili che i crowd workers disseminano sulle piattaforme e la loro costante geolocalizzazione, in tema di ammortizzatori sociali in caso di default della piattaforma, in tema di recupero crediti nella stessa ipotesi.
Il terzo ordine di problema riguarda il rischio, anche elevato considerate le dichiarazioni degli ultimi giorni, che le piattaforme – in conseguenza dell’applicazione di una disciplina eccessivamente rigida dei rapporti di lavoro – fuggano dal nostro Paese, che ha invece disperato bisogno di occupazione.
Infatti, le norme del nostro diritto del lavoro, letteralmente appesantite dagli anni, rischiano di irrigidire le flessibilità, onerare le imprese di inutile burocrazia, creare pantani giudiziali, sollevare farraginosi dibattiti.
Ciò posto, passando ad ipotizzare soluzioni, si rende necessario creare un nucleo stabile di diritti applicabile al lavoratore in quanto tale e non già in quanto subordinato, autonomo o collaboratore coordinato e continuativo e dunque uno Statuto di diritti comuni ai lavoratori, nel solco degli standard di tutela internazionali tracciati dall’ILO (Organizzazione internazionale del lavoro) per definire il “decent work”.
Secondo l’Organizzazione, il lavoro deve essere aggettivato ossia essere dignitoso o di qualità e quindi in grado di garantire a chi vi accede, sotto qualsiasi forma, soprattutto eguaglianza, salario equo, condizioni.
In questa prospettiva, si è già mossa la giurisprudenza inglese. Come evidenziato da due recenti sentenze inglesi, una della Royal Court of Justice (Pimlico vs Smith, 10 febbraio 2017), l’altra dell’Employment Tribunal (case 2202550/15 Aslam/Farrar), i crowd workers sconfinano dagli schemi giuridici tradizionali perché la rivoluzione tecnologia ha messo in crisi, come abbiamo visto, le categorie su cui essi si sono retti e quindi hanno necessità di una tutela comune.
In particolare, questa giurisprudenza ha proposto di estendere lo statuto di protezione previsto dall’Employment Rights Act del 1996 per l’employee, lavoratore subordinato, al worker, qualsiasi altro tipo di lavoratore. Sulla stessa linea, il rapporto inglese “Good Work: The Taylor Review of Modern Working Practices” del luglio 2017 secondo cui “all employees are workers, but not all workers are employees”. In definitiva, vale la vecchia regola per cui problemi nuovi impongono soluzioni nuove. La retrotopia, del resto, come direbbe Bauman, è il pericolo dei nostri tempi.