Grandi aziende hitech americane e alcuni colossi farmaceutici – tra cui Microsoft, Google e Johnson & Johnson – hanno ridotto il loro carico fiscale medio del 25% negli ultimi otto anni grazie al fatto che hanno “parcheggiato” il loro contante all’estero. E lo hanno fatto così sistematicamente che il cash che questi gruppi conservano fuori dagli Stati Uniti è più del cash di tutte le altre aziende Usa messe insieme.
A rivelarlo è un sondaggio condotto dal Financial Times, da cui emerge quasi 500 miliardi di dollari di offshore cash fa capo ad appena 14 gruppi delle industrie tecnologica e farmaceutica americana, con un livello di corporate tax che è in media di appena il 10% l’anno scorso.
Il sondaggio del Ft ha passato in rassegna i conti di 14 aziende tecnologiche e farmaceutiche con alte riserve di cash e che hanno fornito i dati sul contante che tengono all’estero. Si tratta di Apple, Microsoft, Google, Pfizer, Cisco Systems, Oracle, Qualcomm, Johnson & Johnson, Merck, Amgen, Emc, eBay, Eli Lilly e Medtronic, che insieme possiedono 479 miliard di offshore cash e equivalenti. Queste 14 aziende hanno visto scendere il carico fiscale a cui sono soggette di 7,7 punti tra il 2004-06 e tra il 2011-13 e in media sono oggi tassate al 10%; per contro, le tasse corporate nei Paesi Osce sono scese di 3,4 punti nello stesso lasso di tempo e ammontano oggi in media al 25,15%.
Sono cifre, commenta il Ft, che confermano quella “migrazione” dei profitti generati da alcune grandi compagnie americane verso paesi con regimi fiscali molto favorevoli quali Irlanda, Singapore e Bermuda. La montagna di contante che queste aziende hanno fuori dagli Stati Uniti è del resto destinata a crescere perché non solo il regime fiscale degli Usa non è altrettanto favorevole sugli utili aziendali, ma è molto pesante per chi fa tornare in patria soldi che prima teneva all’estero (con tassazione fino al 35%).
Riportare quel contante negli Usa, insomma, potrebbe costare caro a Google e le altre: per questo molti gruppi hanno chiesto una temporanea “tax holiday”, una sorta di moratoria, che permetta di riportare il cash negli Usa sotto un regime un po’ più favorevole. Per ora però il governo non sembra molto propenso a garantire tassi meno severi: lo Us Joint committee of Taxation ha appena indicato al Congresso americano che tale misura costerebbe al governo 96 miliardi di dollari di introiti in dieci anni. In più sarebbe un segnale negativo per le altre imprese: il comitato non vuole dare l’idea che le moratorie fiscali possano diventare una regola nel sistema americano.
Ma non è detto che gli escamotage fiscali siano possibili ancora a lungo. Il gruppo del G20 si prepara a varare norme più severe contro certe scappatoie come il famigerato “double Irish”, la struttura di più società che permette alle aziende di fissare le sedi in paradisi fiscali e pagare meno tasse. Inoltre la situazione fiscale di Apple, che è l’azienda americana con più contante fuori dagli Usa, è sotto lo scrutinio della Commissione europea, come parte di un’inchiesta sulla normativa fiscale in Irlanda, Paesi Bassi e Lussemburgo. E lo stesso Us Joint committee of Taxation ha fatto notare che tali escamotage alla lunga potrebbero rivelarsi non così convenienti come sembrano: le aziende americane, ha detto, si stanno ritrovando oberate da costi extra legati proprio al fatto che conservano i soldi dei profitti fuori dagli Usa e in patria sono costrette a prendere il denaro in prestito perché non possono usare il contante che hanno all’estero (dovrebbero rimpatriarlo e pagare alte tasse, come abbiamo visto).
Gli investitori poi si preoccupano che l’effetto positivo dei regimi fiscali molto favorevoli sugli utili aziendali non tenga nel lungo termine: Luca Paolini, chief strategist di Pictet Asset Management, ha messo in dubbio in una nota che un’azienda che migliora i suoi margini netti solo grazie al fatto che paga meno tasse sia un’azienda dal business in perfetta salute.
I regolatori americani, intanto, spingono perché le compagnie con tanto contante all’estero siano più trasparenti e diano dettagli su quanto contante conservano fuori dagli Usa e come lo utilizzano: Google di recente ha dovuto illustrare alla Securities and Exchange Commission il suo programma con intende spendere “fino a 30 miliardi di dollari su acquisizioni estere”; la stessa Sec ha chiesto ad alcune aziende di spiegare perché gli utili prodotti all’estero sono “sproporzionati” rispetto al fatturato estero: in media le aziende del sondaggio del Ft hanno riferito che due terzi dei loro profitti sono prodotti all’estero, contro solo la metà delle loro vendite.