E’ stato definito come il “MeToo” di Google, una manifestazione su scala globale che ha portato all’attenzione del mondo il tema degli abusi sessuali non soltanto nel mondo del cinema, come era avvenuto per la protesta nata dalle attrici di Hollywood delle attrici sull’onda del caso Weinstein, ma nel pieno della Silicon Valley.
A scendere in piazza, alle 11 del mattino nei rispettivi fusi orari, sono stati migliaia di dipendenti di Google in tutte le sedi della multinazionale, da Singapore a New York, da Londra a Tokyo, da Berlino a Toronto. La protesta nasce per chiedere all’azienda di spiegare ai dipendenti cosa è realmente avvenuto nel caso di abuso sessuale sollevato dal New York Times, per rivendicare un trattamento più rispettoso nei confronti delle donne. L’inchiesta del quotidiano della grande mela porta le lancette indietro fino al 2013, quando – secondo le testimonianze e i documenti raccolti – una dipendente denunciò il creatore di Android, Andy Rubin, accusandolo di averla costretta a un rapporto orale. Dopo l’indagine interna Google- e questo è il motivo della protesta dei dipendenti – invece di licenziare Rubin gli chiese di dimettersi e gli propose una buonuscita da 90 milioni di dollari, cifra che Rubin accettò lasciando l’azienda nel 2014, dopo 10 anni di permanenza.
Se da una parte di sono le accuse del new York Times, che parla di una cultura “permissiva” diffusa in Google con il benestare dei fondatori Page e Brin, l’Ad della società, Sundar Pichai, prende scrivendo ai dipendenti una posizione molto dura contro le molestie, difendendo il loro diritto alla protesta, assicurando che l’azienda non farà sconti agli autori di molestie. Finora, secondo il numero uno dell’azienda, sarebbero 48 i casi di responsabili di abusi sessuali, dei quali sarebbero manager di fascia alta, licenziati da Google senza buona uscita. Durante una conferenza organizzata nei giorni scorsi dal NYT nella grande mela Pichai aveva evidenziato che c’è “collera e frustrazione nel gruppo”, dal momento che nonostante la “posizione strettissima” sui comportamenti inappropriati assunta dall’azienda, “momenti come questo mostrano che non l’abbiamo sempre fatto correttamente”.
Nel mirino dei manifestanti, a quali in Californi si sono uniti anche i dipendenti di Youtube, però ci sono anche alcune delle regole interne all’organizzazione che potrebbero ostacolare il loro diritto a ottenere giustizia: tra queste l’arbitrato obbligatorio, che vincola i dipendenti a utilizzare nei casi di molestie, o di discriminazioni, i canali interni all’azienda senza rivolgersi alla giustizia.