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Google, la Francia punta a incrementare le tasse

Il Consiglio di Stato sta studiando alternative al regime fiscale delle net company operative nel paese transalpino. L’obiettivo è mantenere entro i confini una percentuale di tasse più consistente sul business sviluppato in patria

Pubblicato il 08 Ott 2012

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Il governo francese sta affilando le armi nei confronti di Google & Co, affinché le grandi net company a stelle strisce siano costrette a lasciare in Francia più tasse di quanto non facciano oggi. Lo scrive oggi Le Figaro, precisando che a luglio il governo ha affidato al consigliere di Stato Pierre Collin e all’ispettore delle finanze Nicolas Colin il compito di redigere un report dettagliato sul regime fiscale di Google, Microsoft, Amazon e Facebook. L’esito dell’indagine sarà pronto a dicembre.

Da tempo la Francia ha l’intenzione di modificare a proprio vantaggio il regime fiscale delle net company Usa, che eludono le tasse, in maniera del tutto lecita, sfruttando meccanismi fiscali favorevoli.

Google France registra un giro d’affari annuo compreso fra 1,25 e 1,4 miliardi di euro nel paese transalpino, dove tuttavia paga appena 32 milioni di euro di tasse. Secondo stime di Capgemini, il giro d’affari del motore di ricerca in Francia derivante dal business pubblicitario si aggira intorno al miliardo di euro. Le attività di Google al di fuori degli Usa sono consolidate nella sua filiale irlandese, un porto fiscale favorevole non soltanto per Google, ma anche per Apple e Microsoft, che hanno in Irlanda la loro sede europea.

L’imposta sulle società applicata in Irlanda è pari al 12,5% degli utili, a fronte del 33,3% in vigore in Francia e del 35% negli Stati Uniti. Grazie ad un semplice meccanismo di triangolazione con filiali in paradisi fiscali, fra cui Porto Rico, Bermuda o Antille olandesi, come svelato nel 2010 da Bloomberg, le aziende Usa riescono a godere di sostanziali vantaggi fiscali fatturando le vendite extra Usa in Irlanda. Ma la Francia non ci sta più.

La filiale francese di Microsoft, secondo Le Figaro, registra un giro d’affari annuo di 2 miliardi di euro e paga 22 milioni di euro di imposte.

Questa manovra di “elusione” – conosciuta in gergo come “Dutch Sandwich” e “Double Irish” – ha permesso alla società di Mountain View di ridurre l’aliquota di imposta (tax rate) nei confronti dei fisco straniero al 2,4%. “E’ un’aliquota sorprendentemente bassa”, nota Martin Sullivan, economista ed ex consigliere dell’Ufficio delle entrate del Tesoro americano. “La società opera in Paesi con pressioni fiscali elevate, senza dubbio superiori al 20%”. L’aliquota applicata ai profitti delle big corporation negli Stati Uniti è in media del 35%, mentre nel Regno Unito, secondo grande mercato per giro d’affari di Google, si aggira intorno al 28%.

D’altra parte non si può dire che Google sia l’unica a farsi i “panini all’olandese”. Il re dei motori di ricerca ha adottato strumenti già impiegati da altri operatori del comparto hi-tech tra cui Facebook e Microsoft. Si tratta di schemi che traggono vantaggio dal codice tributario irlandese, che consente di veicolare profitti dentro e fuori sussidiarie locali, eludendo buona parte del 12,5% di imposte locali sugli utili. I tesoretti finiscono così in isole-far west fiscali, come Bermuda o Saint Lucia, dove non esiste alcuna forma di imposizione.

Niente di illecito, dunque. Il sistema chiamato “Double Irish” (da doppia entrata) non comporta l’accusa di evasione fiscale. “Si tratta di una pratica ampiamente utilizzata da altre imprese globali che operano in diversi settori”, spiega Jane Penner, portavoce di Mountain View. Facebook ha messo a punto un sistema simile che consente di veicolare parte dei profitti alle isole Cayman. Tecnicamente il metodo funziona con il “transfer pricing”, ovvero movimenti contabili tra società controllate che consentono di spostare i proventi in sussidiarie con sede nei paradisi fiscali, e di allocare le spese in quelle che operano in Paesi con aliquote elevate. L’operazione si traduce per Google in un rafforzamento degli utili pari al 26% lo scorso anno. Secondo un’analisi di mercato, se la società dovesse rispettare l’aliquota Usa del 35% per tutti i suoi profitti, il valore del titolo sarebbe di 100 dollari inferiore.

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