Google vende pubblicità in Italia per 500-600 milioni di euro, è
in rapida crescita nonostante la recessione e però non figura in
nessun rapporto ufficiale. Un soggetto, nota il Corriere della
Sera, che fattura inserzioni per una cifra pari o superiore a
quelle che, sul mercato domestico, realizzano le concessionarie
degli editori più forti, da Rcs media group a L’Espresso per
arrivare a Mondadori, ma non viene considerato in quel
“calderone” che è il Sistema integrato delle comunicazioni
censito dall’Agcom. Insomma, conclude il Corsera, “un editore
misterioso”.
Ora sarà proprio l’Autorità presieduta da Corrado Calabrò a
prendere le misure italiane di Google. Il Sistema integrato delle
comunicazioni, altrimenti detto Sic, spiega il Corsera, è stato
prefigurato dalla legge Gasparri del 2004 per delimitare un mercato
mediatico nazionale abbastanza grande da permettere anche al gruppo
più rilevante, la Fininvest, di rimanere al di sotto della soglia
antitrust del 20% del fatturato. Il sistema include persino le
promozioni nei supermercati e il direct marketing, ma ha
dimenticato la pubblicità online per parole chiave. Google, però,
ha la quasi totalità della pubblicità connessa alla funzione
search – e la stessa Agcom, nella sua relazione annuale, ha dato
conto, rielaborando dati Nielsen, del clamoroso incremento della
raccolta pubblicitaria su Internet, quasi il 100% nel 2008.
In un mondo ideale, scrive il Corsera, bisognerebbe sfrondare il
Sic dai settori impropri e inserirvi i motori di ricerca, editori
del nuovo millennio. E in effetti, da ottobre, in silenzio,
l’Agcom ha aperto il procedimento di revisione del Sistema. Ma la
strada è in salita perché Google non fattura quanto ricava in
Italia dall’Italia, ma da Dublino. Ed è dunque un problema
conciliare le rilevazioni di mercato con le evidenze ufficiali dei
bilanci. La filiale Google Italy dichiara ricavi inferiori ai 20
milioni e la Guardia di Finanza di Milano aveva ipotizzato
l’evasione fiscale partendo da indagini secondo le quali Google
Italy rappresenterebbe una stabile organizzazione della
multinazionale in Italia e non solo un punto di appoggio. Il pm non
ha condiviso l’impostazione e ha chiesto l’archiviazione. Si
attende, dal 12 febbraio 2009, la decisione del giudice per le
indagini preliminari. E’ chiaro che se il fisco riuscisse a
disegnare il profilo italiano di Google spianerebbe la strada anche
all’Agcom, costringendola a esaminarne il ruolo monopolistico.
Regolazione antimonopolistica e contrasto all’evasione fiscale si
possono sostenere a vicenda.
Il nodo da sciogliere potrebbe trovarsi a Dublino: Google Ireland,
cui fanno capo tutte le Google dell’Emea, non deve, in base alle
leggi irlandesi, pubblicare i suoi bilanci e l’Irlanda, in nome
dei 500 dipendenti locali di Google, potrebbe voler difendere le
ragioni del colosso americano. L’Italia non è però l’unico
Paese a notare il paradosso: la Francia si accinge a varare una
legge che tassa alla fonte, con modalità che potrebbero fare
scuola, le attività di Google realizzate a partire dal suolo
francese ancorché, come quelle italiane, siano astutamente
fatturate online da Dublino. In sede Ocse, dove si definiscono i
rapporti internazionali sul piano fiscale, il governo italiano non
sarebbe solo a chiedere l’aggiornamento del concetto di stabile
organizzazione così da includere le attività online delle
multinazionali.
Ma sul terreno della fiscalità e della regolazione globale della
rete (questione lanciata da Calabrò all’audizione del 26 gennaio
in Senato) si profila anche il conflitto con l’America di Barack
Obama: la Casa Bianca è schierata senza se e senza ma a difesa
degli interessi dei colossi dell’online e lo ha dimostrato
sostituendo il precedente presidente della Fcc con Julius
Genachowski, paladino della net neutrality.