DDL STABILITA'

Google tax, il Senato vota oggi

L’emendamento alla legge di Stabilità che prevede l’obbligo di Partita Iva italiana per le web company fra quelli ancora all’esame. Francesco Boccia: “Stop all’emorragia di risorse dall’Italia”

Pubblicato il 21 Nov 2013

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Oggi la commissione Bilancio del Senato vota la web tax. Dopo l’aggiornamento dei lavori deciso ieri notte, è infatti atteso per oggi il voto sull’emendamento alla legge di stabilità che stabilisce che servizi e prodotti online possano essere acquistati, in Italia, solo da soggetti che dispongano di una partita iva italiana. “I soggetti passivi che intendano acquistare servizi online, sia come commercio elettronico diretto che indiretto, anche attraverso centri media ed operatori terzi – si legge nel testo dell’emendamento sono obbligati ad acquistarli da soggetti titolari di una partita Iva italiana”.

Fino ad ora le filiali italiane dei big di internet non fatturano in Italia la raccolta pubblicitaria e le vendite realizzate nel nostro paese. Gli introiti sono registrati come ricavi di servizi prestati a un’altra società del gruppo che ha sede in uno stato a fiscalità meno pesante, l’Irlanda nel caso di Facebook e Google e Lussemburgo per Amazon, il leader mondiale del commercio online. Se nel Lussemburgo l’Iva è al 15% e in Italia al 22, significa che Amazon gode di un vantaggio competitivo del 7% sui venditori italiani grazie a un meccanismo che, per ora, è regolare.

La proposta – a quanto risulta la Corriere delle Comunicazioni – è seguita molto da vicino dallo stesso premier Enrico Letta, che la considera un modo per tenere la politica fiscale al passo con i tempi, difendendo il made in Italy e costringendo le big company del Web a pagare tasse nel paese in cui operano. “Sempre meglio che continuare a ragionare su come ritoccare le accise – riassume in una battuta Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio della Camera firmatario dell’emendamento a Montecitorio, ripreso a Palazzo Madama dai senatori democratici Francesco Russo, Valeria Fedeli e Rita Ghedini – Mi auguro che una norma del genere sia votata anche dall’opposizione”.

“Che sia chiaro, io non ce l’ho né con Google né con Twitter, giusto per fare un paio di esempi illustri, sono tutte aziende straordinarie – sottolinea ancora Boccia – Ritengo però che l’utilizzo di queste piattaforme internazionali tramite Internet causi in Italia un’emorragia di risorse finanziarie, oltre a un mancato gettito erariale. La dematerializzazione della ricchezza, che caratterizza l’epoca in cui viviamo, richiede una regolamentazione su misura”.

“Il nostro intento non è affatto quello di punire le aziende, ma di consentire anche agli operatori italiani di essere concorrenziali sul mercato, non permettendo più ad imprese straniere di realizzare pratiche che di fatto sono di concorrenza sleale – sottilinea – È un’operazione di giustizia fiscale che serve a mettere le multinazionali estere, le quali godono d’inspiegabili agevolazioni, sullo stesso piano delle nostre strart-up, che allo stato attuale risultano penalizzate”.

Ma il fronte del no alla web tax è ampio. Nei giorni scorsi anche presidente di Confindustria Digitale, Stefano Parisi aveva espresso una posizione contraria. “La cosidetta web tax non è compatibile con l’Ue, non si può fare solo in Italia, ed è concettualmente sbagliata perché “l’economia va sostenuta e non spremuta – sottolineava – Invece di tassare Google ogliamo che le nostre aziende siano messe nelle stesse condizioni di competizione sul mercato ormai globale” del colosso di Mountain View. Google da oggi con Google Play noleggia o vende film esattamente come la mia azienda Chili Tv, ma paga 10 punti in meno di Iva, non ha bisogno di codice fiscale e non manda fattura”.

“Quello che voglio – evidenziava il presidente di Confindustria Digitale – è che la mia azienda sia messa nelle stesse condizioni di Google, non di tassare Google”. “L’economia va sostenuta non spremuta, invece in Italia l’economia e’ spremuta” ha concluso Parisi.

Severo anche il giudizio della American Chamber of commerce in Italy (AmCham), secondo cui l’emendamento “nasconde una volontà punitiva nei confronti delle imprese coinvolte e rappresenta un freno all’espansione dell’economia digitale in Italia che, secondo un recente rapporto di Assintel, vale il 3,1% del Pil nazionale”.

“Dal punto di vista etico – affermano dalla AmCham in Italia – il concetto generale che chi produce reddito in Italia debba pagare le tasse nel nostro Paese è corretto, ma tale argomento dovrebbe essere condiviso a livello di Unione Europea o di altro organismo sovranazionale, come dimostrano le discussioni sul tema in corso all’Ocse. E’ doveroso precisare che attualmente le imprese straniere che offrono servizi online in Italia non violano alcuna legge in materia fiscale. Al contrario, orientamento all’innovazione tecnologica (i bassi investimenti in ‘Ricerca & Sviluppo‘ rappresentano uno dei principali svantaggi competitivi del nostro Paese), cultura delle ‘start-up’, arricchimento del know-how manageriale e spinta verso l’internazionalizzazione sono i benefici in termini di valore che queste aziende apportano al nostro mercato e in generale al nostro Paese”.

“In aggiunta – proseguono dalla AmCham – la formulazione di tale emendamento rappresenta una forte restrizione alla libertà di scelta dei consumatori italiani, siano essi individui o imprese. Come sottolineato da numerosi esperti del settore, tale norma, se approvata, potrebbe esporre l’Italia a una procedura d’infrazione da parte della Commissione Europea, per possibili violazioni dei trattati e delle normative Ue sui princìpi del mercato unico e della libera circolazione dei servizi”.

“Infine – conclude il comunicato – è lecito domandarsi se sia possibile conciliare la volontà di maggiore integrazione a livello europeo ed il desiderio di stipulare al più presto il Trattato di Libero Scambio tra Europa e Usa (Ttip) con questa volontà di chiusura a qualsiasi forma di concorrenza, bollata come ‘sleale’”.

E anche all’interno dello stesso Pd la web tax non convince del tutto. Secondo Gianni Pittella, vicepresidente del Parlamento europeo ed ex candidato alla segretreie del partito, l’emendamento sembra rappresentare una rottura del principio di libertà di insediamento e libera circolazione di beni e servizi contenuta nei Trattati. Si prevede infatti l’obbligo di acquistare servizi online esclusivamente da società che abbiano una partita Iva registrata in Italia e sarà applicabile a tutti i siti web accessibili dall’Italia”.

“Considerato che il provvedimento potrebbe limitare lo sviluppo di un mercato europeo digitale dei servizi on line e che è contrario ai principi del Mercato Unico, chiederò attraverso un’interrogazione scritta alla Commissione – conclude Pittella – quali passi intenda intraprendere per assicurare che le imprese (comprese quelle digitali) possano operare in un quadro legale chiaro e coerente”.

Anche Giorgio Santini, che della legge di Stabilità è relatore al Senato, “c’è il rischio di andare a incidere negativamente su di un settore che in Italia ha ancora bisogno di fare il salto di qualità”.

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